mercoledì, Dicembre 18, 2024

Paradise is Burning di Mika Gustafson: recensione – Venezia 80

Con il suo primo lungometraggio di finzione, Mika Gustafson mette a punto le scelte che hanno caratterizzato il suo interesse per il femminismo anarchico. Visto a Venezia 80 nella sezione Orizzonti

È il femminismo anarchico l’ambito formativo di Mika Gustafson. Dopo una serie di corti, tra cui Mephobia Kids, ripreso come singolo episodio all’interno di Paradiset Brinner, la regia collettiva per il film dedicato alla rapper e femminista intersezionale Silvana Imam, ha definito un territorio di ricerca specifico, legato alla critica militante contro le istituzioni Svedesi. Sotto accusa i modelli dominanti della vita borghese, sempre più a misura di un’Europa fortemente identitaria e illusa di poter conservare un alto livello di benessere, alimentando di fatto modelli di vita esclusivi e xenofobi.

La furia di quel documentario, realizzato in simbiosi con le attitudini performative della musicista apolide svedese, rimane intatta e investe con spirito punk il primo lungometraggio di finzione diretto da Gustafson. Per punk, termine abusatissimo e spesso del tutto a sproposito, ci riferiamo ad una serie di fattori che coinvolgono aspetti inerenti l’estetica della narrazione e il modo in cui questi si combinano con le scelte di vita dei personaggi, la relazione con i corpi e l’inintegrabilità con l’ideologia riconosciuta degli spazi sociali.

Velocità e marginalità sono quindi gli elementi che caratterizzano buona parte di Paradiset Brinner, dove il playground esteso tra le villette a schiera e i giardini pubblici di una città apparentemente a misura borghese, accoglie la vitalità senza regole di un gruppo di ragazze, la cui sorellanza è un prodotto traumatico della separazione radicale con il mondo adulto.

La sedicenne Laura è sempre in fuga, occupa e distrugge tutti gli spazi domestici che incontra e costruisce senso attraverso la permeabilità degli ambienti che occupa. Pronta a menar le mani per difendere le sorelle minori, è parte di una comunità disintegrata, dove le giovani ragazze esercitano o subiscono violenza e bullismo, come forma espressiva estrema, cercando un collante che sia in grado di fornire sopravvivenza, rispetto alla cancellazione di entrambe le figure genitoriali.
Le modalità inventive con cui Laura evita la verifica dei servizi sociali, caratterizzano la forza di un personaggio abituato a vivere ai margini delle regole condivise, tanto da servirsi del gioco come di un vero e proprio strumento per riconfigurare la percezione della realtà.

Gustafson preferisce allora il ritratto al racconto, così come l’energia creativa del movimento ludico allo sviluppo. Intorno a questa reinvenzione del tempo, tutto quello che accade ha una forma episodica emersa dalla morfologia del quartiere e dal modo in cui le ragazze fanno esperienza di spazi e persone. L’opposizione più evidente all’interno di questa rete circoscritta di relazioni è quella tra l’idea di casa e i confini liberi di un parco, dove la perdita del tempo diventa categoria essenziale dell’esistenza.
Per Laura e le sorelle, lo spazio precario del nido familiare è un luogo incerto, attraversato da frenesia e disordine, mentre gli altri appartamenti dove la ragazza si infila quasi sempre come presenza aliena e clandestina, vengono sovvertiti tanto da rivelare la fragile consistenza dei confini stabiliti.

Più dell’improvvisa attrazione emotiva e fisica tra Laura e Hanna, donna sposata che conserva ben nascosto uno spirito ribelle, a rappresentare il centro vitale del film è il contatto febbrile tra l’urgenza incompromissoria dell’adolescenza con i frammenti di un mondo adulto paralizzato.

Non è forse un caso che i momenti più deboli dell’opera prima di Gustafson siano tutti concentrati nella dilatazione retorica di alcune storie, il cui sviluppo non può tra l’altro verificarsi, perché destinate a deflagrare nel grido e nello scaracchio.

L’assetto famigliare di Hanna, costruito sull’ipocrisia come quello di numerose coppie e la depressione di Sasha, uomo di mezza età che non riesce più a cantare, vengono in qualche modo sbloccati dall’affetto e dalla furia di Laura e di Mira. La simmetria è la stessa e colloca lo spazio della maturità in una dimensione fallimentare.

La direzione della fotografia curata da Sine Vadstrup Brooker predilige un angolo focale stretto, sfumando i contorni dell’immagine. Una prossimità ai volti e ai movimenti dei personaggi che aumenta il senso di claustrofobia negli interni e rivela tutta la vocazione open-air del film, giocato al meglio quando tutto si muove, gli spazi vengono distrutti e i corpi si dibattono tra lotta e divertimento.

I confini della sorellanza sono quindi determinati da un’energia amorale contemplata nella sua esplosione più intensa, ed è in quest’apice che il film scorre come l’esperienza.

Il luogo dove è possibile stabilire nuovi legami è allora una rappresentazione identitaria oltre le illusioni del desiderio, incorporata nella ribollente voglia di libertà da qualsiasi narrazione, soprattutto quella del potere che vorrebbe circoscrivere generi e famiglie.

Paradise is Burning di Mika Gustafson (Paradiset Brinner, Svezia, Italia, Danimarca, Finlandia, 2023 – 108 min)
Interpreti: Bianca Delbravo, Dilvin Asaad, Safira Mossberg, Ida Engvoll, Mitja Siren, Marta Oldenburg, Andrea Edwards
Sceneggiatura: Mika Gustafson, Alexander Öhrstrand
Fotografia: Sine Vadstrup Brooker
Montaggio: Anders Skov

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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