Chissà se Zhang Yang, per realizzare il suo nuovo film, si è ispirato al lavoro di Kazuyoshi Nomachi. Dallo scorso 30 maggio 2015 la Villa Reale di Monza ha aperto al pubblico una mostra espositiva di 200 scatti selezionati dalla produzione del fotografo giapponese, intitolandola proprio “Le vie del sacro”. Tra il lungo lavoro di documentazione svolto da Nomachi sin dai venticinque anni d’età, le foto realizzate in Tibet a partire dal 2004 in mezzo alle comunità Buddhiste in pellegrinaggio sono molto vicine alle immagini di Paths of the soul, il titolo che il regista cinese ha presentato in anteprima mondiale allo scorso Toronto International Film Festival.
Diversamente dall’ultimo film di Pema Tseden, il bellissimo Tharlo, quello di Zhang Yang è totalmente immerso nel paesaggio naturale Tibetano e non è interessato a cogliere il contrasto tra gli effetti della modernità e la vita montana. Il gruppo di tibetani che inizialmente segue attraverso i rituali della vita quotidiana, sono parte di un villaggio che assorbe le loro vite nel rapporto tra esistenza e una scansione del tempo per come la definisce Seng-ts’an, patriarca del Buddhismo Zen, secondo il quale le parole diventano fallimentari dal momento in cui la vita “non è né ieri, né oggi e né domani”.
Rispetto al viaggio verso ovest filmato da Tsai Ming Liang, il lavoro di Zhang Yang è apparentemente più tradizionale, anche in termini documentali, perché la natura mutevole e transitoria dell’immagine non passa attraverso il contrasto empirico tra piani della visione, opponendo un tempo parallelo in grado di trascendere, come dicevamo, “quello che percepiamo come spazio dell’inquadratura”. Al contrario il percorso di 2.000 chilometri compiuto dai pellegrini a partire dal villaggio nello Yunnan verso Lhasa in direzione del monte Kaliash (Kang Rimpoché), crocevia tra la cultura cinese e quella indiana, è filmato in questo film senza sceneggiatura, come ha dichiarato lo stesso Zhang Yang, con una progressione che mette in relazione l’incedere dei corpi con la prospettiva della pittura tradizionale cinese del paesaggio, come accadeva in forma e intenzioni diverse in Still Life di Jia Zhangke.
Attraverso la prima parte del film, ambientata all’interno della piccola comunità, mentre la preparazione del cibo e i processi di essiccazione dello Yak scandiscono i preparativi del viaggio, Zhang Yang ci immerge in una dimensione ritualistica dove gli elementi del contemporaneo si riducono a qualche luce e ad un trattore sistemato per trasportare le provviste durante il lungo viaggio. La strada e l’orizzonte dominato dai monti occuperanno ben presto la dimensione dello sguardo, con il movimento incessante dei passi interrotti regolarmente dal distendersi completo dei pellegrini in posizione prona: la fronte in direzione del monte sacro, due supporti di legno per proteggere le mani dal contatto con il terreno e un grembiule di cuoio tra i corpi e la strada.
È nei dialoghi catturati durante le soste, mentre i viandanti sistemano le tende per la notte sul ciglio della strada o nello spazio naturale di alcune aperture circoscritte rispetto al sentiero, che Zhang Yang oltrepassa, da una parte all’altra, il confine tra documento e finzione, spingendo i suoi attori non professionisti alla descrizione di una volontà di purificazione che coinvolge la stessa prassi performativa, il lavoro della troupe tecnica e quello di Zhang Yang, tanto che il film, realizzato in condizioni estreme, diventa esperienza di vita.
L’eredità famigliare di un brutto karma, il sangue degli animali che contamina l’anima del macellaio, la volontà di Yang Pei, l’anziano zio di Nyima che non ha mai compiuto quel percorso e la preghiera senza sosta per la felicità del mondo, diventano motivazioni completamente assorbite dall’intensità fisica con cui viene affrontato un obiettivo di proporzioni eccezionali, perché tra gli agenti atmosferici imprevisti e gli accidenti del caso, incluso quelli benevoli di un bimbo che nasce durante il percorso e quelli negativi del trattore uscito fuori strada per colpa di un “raro” automobilista, c’è una linea costante e irriducibile rispetto alla costruzione narrativa e che nasce dalla persistenza indifferente dell’immagine paesaggistica mentre domina il fondersi dei corpi con la ripetitività dell’atto devozionale, convergenza tra interno ed esterno, qui come nelle pratiche che accomunano spiritualità indù, Buddhismo e la ricerca dell’hesychia.
L’ostacolo e le intemperie, la tempesta di neve e quella di pioggia, le rocce che improvvisamente cadono dall’alto allora diventano simili a quello schermo dell’anima oltre il quale l’immagine non può che documentare l’indifferenziazione tra sguardo e superficie, come nelle “finestre dipinte” di Stray Dogs.
Zhang Yang sceglie una via meno radicale di quella percorsa da Tsai Ming Liang, semplicemente perché il suo cinema è più vicino alla successione dei piani e alla costruzione di un “sentiero” che conservi alcuni appigli narrativi, ma al di là dell’apparenza formale, Paths of the soul rimane una delle esperienze più intense del cinema coevo, proprio nella descrizione di un processo di riduzione e assorbimento degli elementi costitutivi del racconto, come in un road movie infinito.
Nello scontro con il monte rimane tutta la forza e l’inconoscibilità di un evento che oltre le occorrenze mondane (il cibo, la ricerca funzionale di un lavoro) improvvisamente esce fuori dal tempo.