domenica, Dicembre 22, 2024

Perfect Days di Wim Wenders: recensione

L'arte del vuoto. Un continuo ritorno alle origini. Su Perfect Days di Wim Wenders

Più che alla bellezza, l’esperienza quotidiana d’ascolto musicale di Hyrayama è strettamente connessa all’impermanenza. L’audiocassetta, nel formato commercializzato a partire dai primi anni sessanta, perde facilità di utilizzo, portabilità, maneggevolezza e tutte le qualità attribuitele dal mercato, per definire il valore dell’esperienza soggettiva come ripetizione, apparentemente immutata, della presenza nell’assenza. E viceversa.

Quel suono così “infedele” legato ad un mucchio di nastri magnetici superati dalla storia tecnologica e recuperati dalla valorizzazione mercantile dei segni tangibili che il tempo ha depositato sugli oggetti, diventa marca della provvisorietà, come complesso aggregato di fenomeni materiali e simbolici.
Questi si manifestano nella coesistenza di materiale e immateriale, attivandosi in modo alternativo secondo le diverse armonie dell’esistenza e le divergenti traiettorie dello sguardo.

Il gesto automatico dell’inserimento nell’autoradio, è prassi articolata nell’eterna reificazione di un presente smaterializzato, codice alieno e misterioso di una memoria sepolta. Attitudini quotidiane che se ne vanno con la deperibilità dei dispositivi di consumo, diventate progressivamente irriconoscibili.

È così per la giovane Aya, improvvisamente immersa nell’esperienza di un suono “mai sentito”, dove la fragilità del nastro, il lato di riproduzione corretto, l’irripetibilità di un oggetto apparentemente inservibile, si saldano nella dimensione concreta e interiore dell’istante, generando un movimento di empatia che per la prima volta probabilmente, individua il punto di convergenza tra estasi e perdita.
La sottrazione furtiva del nastro è il tentativo di trattenere l’apice inafferrabile dell’esperienza, eppure il feticismo più sterile può essere superato solo nella capacità di riattivare relazioni condivise, nel bene comune di una pratica d’ascolto che risolve le contraddizioni del tempo nella sua stessa vacuità.
E se Takashi quei nastri vorrebbe venderli tutti, segnato negativamente dall’importanza del denaro come motore che muove ogni storia d’amore, la sua visione funzionale e utilitaristica è un acuminato motto di spirito che serve a definire lo spazio eccentrico di Hyrayama, fuori dal tempo corrente, misurato secondo una fiducia incondizionata nell’immanenza, dove l’istante si ripete ogni volta nella bontà della sua stessa luce.

Il vacuo dissolve ogni limite, disintegra la finitezza, rivela reciprocità nello scambio continuo tra soggetto e oggetto, dove niente è definitivo.
La realtà del vuoto, oltre quella apparente, assegna altre qualità alla materialità degli oggetti e dei gesti ripetuti, riscrivendo la dimensione fenomenica attraverso un percorso di perfezionamento.

Ogni cosa è un veicolo possibile in una rete sottile, ma totale, di interdipendenze, dove niente dura e tutto muta. L’impossibilità di raccontare una storia, rifuggendo la superficie dello sguardo “turistico” è una delle riflessioni centrali nel cinema di Wenders. “Non solo le immagini sembrano intercambiabili – dice in “Lettera da New York” durante la lavorazione di Hammett – in balìa di un libero arbitrio, alla ricerca di una forma perduta, ma anche i loro oggetti sembrano guardarmi con un solo rimprovero: lasciateci in pace”.

E se il cinema americano di allora, per il regista tedesco aveva la tendenza a “diventare o a voler essere la propria pubblicità”, mentre quello di adesso, come ha recentemente dichiarato, diventa nauseante attraverso l’ossessiva variabilità del remaking, Perfect Days ritrova quella fenomenologia contemplativa che nell’apparenza del viaggio riusciva a rivelare la filigrana e la relazione tra oggetti, gesti, figure nel paesaggio.

Suggerire, invece di definire, rivela tutte le potenzialità nell’assenza, come per Ozu, Vermeer, la pulsione deambulatoria di Wilhelm in “Falso Movimento” e la sua “voglia di scrivere senza sapere cosa”.

Rispetto all’esplorazione riflessiva dei dispositivi narrativi occidentali, Wenders si riappropria di quel minimalismo rituale attraverso un Giappone immaginale, lontano dalle aporie tra tecnologia e tradizione, quindi distante da certo cinema contemporaneo, come dalla visione aerea di Tokyo-Ga, dove il confronto con l’archeologia di Herzog conficcata nelle viscere del mondo, diventava flagrante.

Rielabora allora quello stesso senso di perdita e di sconcerto che allora veniva generato dal contrasto tra esperienza individuale e il rigore di un cinema lontano, attraverso le piccole rivelazioni quotidiane di un individuo fuori dalla cronometria attuale.

Il sogno, regolare e quotidiano nelle notti di Hyrayama, sostituisce le apparenze fenomeniche con impressioni precognitive, rielaborazioni dell’esperienza affidate ai brevi film in pellicola di Donata Wenders che stabiliscono una connessione aptica e aurorale con gli elementi della natura.

Da quale parte della realtà si trovi è possibile riconoscerlo solo dalla qualità totalizzante dello spaziotempo vissuto, mediante le numerose manifestazioni in cui si rivela.
Non c’è quindi un criterio oppositivo, se non in termini più generali, nel contrasto che Wenders stesso evidenzia rispetto all’immagine contemporanea, ossessiva e inabissata nella densità estrema delle informazioni che uccidono e accecano ogni istante.

Il cinema è allora e ancora esperienza del vuoto, luogo dell’occhio e del corpo vissuto in solitaria eppure in connessione con altrui vibrazioni, cura del proprio spazio interiore ed al contempo, dell’edificio collettivo. Toilette comune per sogni, incubi e desideri, fuori dalla contaminazione ipertrofica di un io frammentato da presenze instagrammabili, è il segno di un’esperienza rara perché ormai al tramonto.

Ma a differenza di un desiderio nostalgico, non c’è romanticismo nell’aurora senza fine che Hyrayama contempla tra gioia e dolore. Quei sentimenti sono inscindibili, come la vita, la morte e la resurrezione quotidiana, dove il vuoto è continuo ritorno alle origini.

Perfect Days di Wim Wenders (Giappone, Germania 2023)
Interpreti: Kôji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano, Aoi Yamada. «continua Yumi Asô, Sayuri Ishikawa, Tomokazu Miura, Min Tanaka
Sceneggiatura: Wim Wenders, Takayuki Takuma, Takuma Takasaki
Fotografia: Franz Lustig
Montaggio: Toni Froschhammer

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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