Angelo o meglio Angelino, come lo chiamano tutti, vive la sua quotidianità in un perenne stato di catatonia emozionale. Apatico, si trascina da casa ad uno squallido baretto di quartiere, incontra degli amici ai quali pare non essere legato da alcunché, parla poco e solo se interrogato. Non studia, non lavora, non guarda la TV, non va al cinema e non fa sport: Angelino è attanagliato in un autismo sociale che lo rende estraneo a tutto ciò che lo circonda. Compreso il padre, unico genitore rimastogli in vita, un uomo duro e distante, pragmatico e qualunquista, che solo dopo la morte della moglie tenta di avvicinarsi al figlio di cui non sa nulla, neanche l’età. Ma è troppo tardi per ricreare un qualsivoglia rapporto, troppo tardi per svincolarsi dalle assuefazioni delle loro personali solitudini.
Qualunque sentimento in Perfidia appare ibernato, stanco, vissuto con rassegnata monotonia e superficialità. La religiosità impregna ogni gesto e considerazione ma è un orpello di plastica appeso allo specchietto retrovisore dell’auto, un ingenuo pensiero catechistico o, al più, una voce che invita alla preghiera da una radio cattolica locale; la politica non è che un modo per affermare la propria presenza, mostrarsi potenti agli occhi degli altri (“Che partito?”, “Un Partito.”); l’amore non esiste, se ne vende il simulacro sui marciapiedi, è difficilmente avvicinabile o è inteso più che altro come bypass per una vita ordinaria come quella dell’amico fortunato, col suocero ricco.
Un mondo disperante, claustrofobico, invaso da quella perfidia del titolo che pare scagliarsi senza esitazione su chi è già martoriato, non ha alcuna speranza, è già l’ultimo tra gli ultimi.
Lavorando sul filo della metafora e sul simbolo, Bonifacio Angius, alla sua prima prova sulla lunga durata dopo l’apprezzato mediometraggio SaGràscia, traspone all’interno del particolare di una vita borderline, l’universale di una meditazione inappuntabile sulle dinamiche di un’intera generazione di trenta/quarantenni (ma sino a chi può essere davvero estesa?) privati di una qualunque prospettiva di crescita, di emancipazione, della possibilità di una ricerca di sé, da quei padri, che come il Manunta senior del film, hanno già tracciato delle strade a senso unico nell’indifferenza e nella sopraffazione, nella ripetizione delle pratiche del benpensiero e dell’autoesaltazione. Nell’egoistica ricerca di una stabilità individuale, vissuta a dispetto della propria stessa progenie. Un benessere di cui questa mai potrà goderne ugualmente (lavoro? casa? pensione?) se non in una funzione parassitaria e, giocoforza, a tempo determinato (“cosa farai quando non ci sarò più io?”).
Peppino (un ottimo Mario Oliveri) è un sistema fagocitante e distruttivo, incapace di andare oltre se stesso anche quando s’accorge per la prima volta dell’apatia alienata del figlio. Decide per lui, s’impone autoritario, non gli concede alcun valido strumento per una rinascita, per la sua vita (se non proprio per la sua sopravvivenza). Si sostituisce a lui anche nel dolore e nel disagio, lo doppia trasformando la sua catalessi esistenziale, nella catalessi vera e propria dell’ictus, costringendolo all’accudimento. Angelino infatti non si ribella, non saprebbe neanche come fare (anche il rapporto con la madre appena trapassata, nel breve momento onirico, appare vuoto e demotivante); tenta di mimare goffamente il genitore, di ripeterne le parole, i gesti, ed anche nella più prosaica e freudiana delle uccisioni non trova riscatto. Non trova cioè, in essa, la chiave per farsi, davvero, definitivamente, uomo (e forse trova davvero se stesso soltanto in quei due unici sfoghi dolorosi: solo sul letto e contro il barista). In questo l’accostamento al Bellocchio de I Pugni In Tasca è un errore, giacché in Angelino è assente qualunque aspirazione, qualunque sostegno ideologico ma solo il confuso riferirsi ad un Gesù da santino, ora inteso come buon protettore, ora come sbadato e distante. E’ il vuoto generazionale fatto disagio, fattosi presenza tangibile.
Angius riesce a narrare una storia realmente soffocante, perfida (appunto), con una leggerezza talmente esemplare da depotenziarne l’atrocità, nascondendola dietro sprazzi d’amarissima ironia; salvo poi tornare alla memoria, in tutta la sua forza, a visione terminata. Riesce a restituire la cruda autenticità di un rapporto padre/figlio fatto di umori e contraddizioni. Riesce a ritagliare una porzione di Sardegna urbana e proletaria, facendone misura della condizione del Paese di oggi (inserendosi a pieno titolo in quel mosaico sempre più vivido, ricco e forte che è il cinema indipendente regionalistico).
Riesce, tenendosi incollato al più improbabile dei protagonisti possibili: un Forrest Gump depresso a cui dà volto un bravo Stefano Deffenu (sodale del regista da anni, cofondatore della cooperativa artistica Garranza), i cui vuoti espressivi, i silenzi rotti appena, richiamano a chi scrive l’Antonino Iourio de Il Verificatore d’Incerti. Vantando, peraltro, uno score misuratissimo ed una bellissima fotografia curata dallo spagnolo Pau Castejón Ubeda.
Scarsi gli extra: solo trailer e galleria fotografica.
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