“Nel mio film non ho agito sulla realtà. La guardavo con lo stesso sguardo con cui il protagonista, un giornalista, esamina gli eventi che sta vivendo. L’obiettività è uno dei temi del film.”
Apice di una narrazione che procede per sottrazione, tabula rasa dei sentimenti, summa dell’indecifrabilità del mondo, universo di immagini in cui il soggetto perde la sua centralità, Professione: reporter è il punto di non ritorno nel processo di desertificazione e rarefazione del reale.
La capacità dello sguardo del regista di creare mondi, quella che Grazzini definiva “ costante vocazione a sperimentare “, applicata alla scena più famosa del film, la penultima, è tutta nel breve documentario di Labarthe in cui è il regista stesso a delineare una mappa che ripercorre i suoi passaggi creativi attraverso la risoluzione di alcuni problemi tecnici di ripresa.
” Ho già avuto la sequenza finale in mente quando ho iniziato a girare. Sapevo, naturalmente, che il mio eroe doveva morire, ma l’idea di vederlo morire mi dispiacque. Così ho pensato ad una finestra e quello che era al di fuori, sotto il sole del pomeriggio.”
Bisognava rendere fluido il passaggio all’esterno, attraverso le sbarre di una finestra protetta da inferriata, della mdp in scorrimento lungo un binario attaccato al soffitto della stanza d’albergo dove il protagonista, David Locke (Jack Nicholson), è disteso sul letto in attesa della morte.
“Mi trovavo di fronte a questo problema: un uomo che ha cercato di cambiare identità e ritiene di aver mancato questo tentativo, si è steso sul letto come se si disponesse ad essere morto, orizzontale. Non saprei dire perché, ma ho sentito il bisogno di non staccare mai la macchina perchè è un momento in cui, molto probabilmente, questo individuo sente che la morte si avvicina e l’affronta con molta calma. Per esprimere questa calma avevo bisogno di rimanere su di lui continuamente e sulle cose che avvenivano intorno a lui come se fosse lui stesso la camera che recepiva”.
Quasi abbattendo le barriere imposte dall’impenetrabilità dei corpi, Antonioni fa aprire le sbarre della grata nel momento in cui l’occhio della mdp arriva esattamente fra le due centrali. Poi, assorbendo con un giroscopio, ultimo ritrovato della tecnica canadese in fatto di strumentazione fotografica, il dondolìo della macchina sganciata dal binario, rende perfettamente intercambiabili le dimensioni del reale e del virtuale, e l’artificio finisce di essere fatto esterno, aggiunto a posteriori, per diventare fattore determinante nella costruzione della scena.
Eclettico sperimentatore di avventure dello sguardo, il regista intese utilizzare modalità di ripresa che sdrammatizzassero l’evento, la morte del protagonista. Annullarne la carica emozionale creando una tassonomia di immagini neutre, in cui il flusso del reale non venisse alterato dallo sguardo del regista ma fosse pura intuizione percettiva, pensiero cinematografico avulso dal pensiero logico e da una forma verbale, dava alla camera un ruolo centrale, sostituendosi allo sguardo inevitabilmente portato a manipolare la realtà.
Il piano sequenza di 7 minuti dà corpo all’ambiguità del reale, alla sua apparenza ingannevole e indecifrabile, al senso di estraneità dell’essere umano di fronte alla propria vita. Crea in definitiva una falsa realtà che ha tutta l’apparenza del vero, perché calibra minuziosamente a questo scopo tutti gli elementi della costruzione della scena.
I rumori ambientali che coprono lo scoppio dello sparo, le note di una tromba che si diffondono per qualche secondo nell’aria (“come di qualcuno che si sta esercitando ” dice il regista) la sirena della macchina della polizia che squarcia il silenzio e le persone nella piazza assolata e desertica che si muovono secondo un copione incomprensibile per la distanza, tutto collabora alla sensazione di straniamento voluta dal regista.
E’ lui stesso a guidare la lettura della sequenza, a svelare, passaggio per passaggio, la sua costruzione con l’affabile semplicità dell’artista che parla del suo mestiere, dei materiali con cui ha lavorato e di quella ricerca ininterrotta di soluzioni che fanno del suo linguaggio un unicum inimitabile.
Nel finale, un bel tramonto con qualche tocco di chitarra andalusa, cose e uomini rientrano nei binari della quotidianità più accattivante. Antonioni sorride un po’ mentre parla di quel tramonto e di quella melodia, forse pensa al suo rapporto con la musica nel cinema, al suo rifiuto di utilizzarla, com’era consuetudine, “in funzione di commento esterno, inteso a creare un rapporto tra musica e spettatore, non fra musica e film”.
Come sempre, dunque, anche ora la musica collabora alla costruzione stessa dell’immagine, divenendo elemento caratterizzante proprio della diegesi. Il tempo scorre indifferente alle vicende umane, il sole nasce e tramonta, nell’aria le note volano e si disperdono. Un uomo muore in una stanza in mezzo al deserto.