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Petite Maman di Céline Sciamma: recensione

Di quale realtà parli Petite Maman non è possibile dirlo, se non in quel gesto ancora carico di mistero che nel riconoscersi a partire dal nome, supera il peso delle categorie e del logos, attraversando la persistenza della morte nell'esperienza quotidiana. In Sala grazie a Teodora Film

Difficile pensare all’Alice di Chabrol senza riferirsi ai palindromi ancora più estremi di Céline et Julie vont en bateau, il film diretto da Jacques Rivette tre anni prima di Alice ou la dernière fugue. Difficile non pensare ad entrambi mentre Céline Sciamma apre al nostro sguardo le possibilità di un sentiero. Dei due, l’avvitarsi di più universi e la complessa stratificazione temporale del gioco rivettiano, sembra accordarsi maggiormente con la ricerca dell’invisibile generata dal doppio percorso a ritroso e in avanti di Nelly e Marion.

Anche nel cinema della regista francese, il gesto genera fratture teatrali capaci di mostrarsi nello spazio rappresentativo con quell’incongruità che facilita il potere anarchico e generativo del gioco, il solo in grado di disvelare la qualità iniziatica del trastullarsi infantile.
Nel percorso che conduce la piccola Nelly ad attraversare il bosco intorno alla casa della nonna materna, per trovare dall’altro lato la stessa abitazione indietro nel tempo, l’evidente scambio binario tra figliolanza e maternità è qualcosa di più del semplice attraversamento di uno specchio. Perché lo spazio dell’infanzia non rileva scissione con la realtà circostante, se intendiamo per realtà qualsiasi manifestazione fenomenica catturata dai sensi, prima ancora che il disinnesco psico-pedagogico o gli imperativi genitoriali intervengano a saldare irrimediabilmente la relazione tra luci e ombre, guastandone la percezione.

Non è un caso che Sciamma parta prima di tutto dal vuoto. Vuoto come come lutto, svuotamento, assenza, perdita del proprio centro, verso una definizione cronotopica della realtà.
La rappresentazione dello spazio-tempo in Petite Maman ha quindi una qualità interiore, dove riaccostarsi al passato può diventare la via per evolversi verso una vita illuminata.

L’immagine autunnale ricreata dalla fotografia di Claire Mathon, definisce i toni e i confini dello spazio rappresentativo entro il regime autunnale della morte. Invisibile come evento, ma concretizzata nel trasferimento dal soggetto agli oggetti materiali che costituiscono la casa di campagna. La pittura abbozzata intorno ai mobili, il bastone della nonna, le stanze prossime allo sgombero, la vecchia mobilia, la persistenza di un’aura che può essere ancora percepita se si è capaci, come un bambino, di assegnare energia e qualità animistiche agli elementi materiali.

L’occhio di Sciamma cerca allora di cogliere questa dimensione interstiziale della realtà, nei piccoli riflessi, nella qualità rituale del gesto, nell’esperienza della natura come confronto costante con forze dimenticate. Lo fa attraverso modalità che le sono congeniali, nella definizione di uno sguardo empirico, eminentemente cinematografico, entro il continuo scambio tra opacità e trasparenza dell’immagine.

Nel dialogo interrotto tra madre e figlia, identifica quindi la possibilità di ristabilire una connessione profonda a patto di lasciarsi alle spalle tutti i sintomi della dimenticanza, segno di un’alienazione più profonda e sedimentata nella complessa formazione di una personalità.

Che il sogno non proceda necessariamente da Nelly a Marion, cioè da Figlia a Madre, ci viene suggerito dalle continue interferenze disseminate da Sciamma, rispetto ad una simmetria speculare esposta in evidenza, dove l’indicibile può solo trapelare.

Una di queste infrazioni alla logica dello specchio per come la intendiamo è nello sguardo dolcissimo e benevolo del padre di Nelly, indirizzato a Marion bambina, poco prima che le due nuove amiche possano passare l’ultima notte insieme, come commiato definitivo dai luoghi dell’infanzia. Il padre di Nelly vede Marion esattamente come la madre della piccola interagisce con Nelly. Lo spazio dell’immaginazione occupa quello reale da un punto d’osservazione sempre relativo, suggerendo convergenze e raddoppi più complessi di una fantasia soggettiva.

Da una parte e dal punto di vista di Nelly, per farla con il Deleuze di “Foucault”, il doppio si manifesta come interiorizzazione dell’esterno e raddoppiamento dell’Altro, un non-io immanentizzato che non rappresenta necessariamente la proiezione dell’interiorità.
Ma dal punto di vista di Marion, l’allontanamento dall’emulazione sociale sembra condurla verso il contatto con l’indicibile, mediante una serie di atti simbolici, dal travestimento alla creazione di un vero e proprio sistema d’accesso ad un altro mondo.

Di quale realtà si tratti, circoscritta da una stanza ormai vuota dove Madre e Figlia si ritrovano trasformate, non è possibile dirlo, se non in quel gesto ancora carico di mistero che nel riconoscersi a partire dal nome, supera il peso delle categorie e del logos, attraversando la persistenza della morte nell’esperienza quotidiana.

Petite Maman di Cèline Sciamma (Francia 2021, 72 min)
Interpreti: Joséphine Sanz, Gabrielle Sanz, Nina Meurisse, Stéphane Varupenne, Margot Abascal, Florès Cardo, Josée Schuller, Guylène Péan
Sceneggiatura: Céline Sciamma
Fotografia: Claire Mathon
Montaggio: Julien Lacheray

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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