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Phoenix di Christian Petzold: la recensione dal Festival del Film di Roma 2014

Ultima collaborazione tra Christian Petzold e lo sceneggiatore Harun Farocki, scomparso a fine luglio 2014. Purtroppo Phoenix è il meno convincente tra i titoli realizzati dai due; melodramma fassbinderiano / sirkiano e Trümmerfilm notturno fuori tempo massimo. Presentato ieri al Festival del Film di Roma

Pochi sodalizi hanno saputo infondere qualità e solidità nel cinema tedesco contemporaneo come quello tra Christian Petzold e Harun Farocki, quest’ultimo co-sceneggiatore e, in solitaria, documentarista di vaglia e docente. A loro dobbiamo due classici quali Die innere Sicherheit (2000) e Gespenster (2005), mentre ai soli sforzi del Petzold autore a tutto tondo vanno accreditati titoli straordinari – per quanto ignoti fuori dai confini tedeschi – come Wolfsburg (2003) e Yella (2007).

Detto questo, è triste constatare come l’ultima delle loro collaborazioni, Phoenix, sia anche la meno convincente. Ultima perché Farocki ci ha lasciati a fine luglio 2014. Un pizzico di contesto. Petzold torna dietro la macchina da presa a due anni da Barbara, presentato con successo in concorso a Berlino e ambientato in un ospedaletto della DDR anni Ottanta. Protagonisti di entrambi i film sono la diva Nina Hoss – qui più che mai messa in scena come tale – e Ronald Zehrfeld, volto assai frequente della produzione teutonica degli ultimi anni. Il salto dal dramma a sfondo tedesco orientale a questo improbabilissimo melodramma tardi anni Quaranta è choccante sul versante della tenuta narrativa, ma in fin dei conti opportuno se si pensa al tipo di lavoro sul passato che il cinema (e non solo il cinema) tedesco è abituato a fare. In altre parole, Petzold copre con Phoenix il secondo macrotema del «dramma storico tedesco contemporaneo»: dopo aver inscenato la provincia della DDR, affronta la Berlino «in Trümmern», ovvero in macerie, di rosselliniana memoria. Da questo punto di vista, Barbara e Phoenix sono due pellicole produttivamente simili e tematicamente gemellate, perfette per il mercato estero – al quale Petzold, da consumato professionista qual è, guarda con grande attenzione.

Phoenix vuole essere, al contempo, un melodramma fassbinderiano (quindi sirkiano) e un Trümmerfilm notturno fuori tempo massimo, un veicolo divistico e un tentativo forse coraggioso, forse semplicemente maldestro di trattare IL tema per antonomasia che qualunque regista tedesco di fama è prima o poi costretto ad affrontare: il nazismo (e le conseguenze del). Persino un maverick come Herzog ha ceduto alle malie del nazidramma sfornando Invincible (2001)… Christian Petzold lo fa raccontandoci la storia della cantante ebrea Nelly (Nina Hoss) che torna da Auschwitz col volto sfregiato, viene aiutata dall’amica Lene (Nina Kunzendorf) a ottenere una nuova identità e a ripartire da zero nella Berlino angosciosa e canterina di quegli anni; ignorando i consigli dell’amica, Nelly si mette sulle tracce dell’ex marito Johnny (Zehrfeld), trovandolo sguattero nel locale che dà il nome al film e – ovviamente, ovviamente! – strizza l’occhio alla nuova vita della protagonista.

Qualsiasi aggiunta a questa bozza di plot sarebbe uno spoiler, quindi ci fermiamo qui. Sottolineando tuttavia i tre motivi principali per cui Phoenix non funziona. In primo luogo, la trama s’impernia su un evento a dir poco inverosimile, che la drena di ogni carica drammatica. Il finale, che vorrebbe essere un’epifania sconcertante come quella che Petzold aveva magistralmente realizzato in Wolfsburg (sempre con Nina Hoss in scena), è prevedibile e, malgrado resti una spanna sopra al resto del film, non lo salva. Terzo e ultimo: nel 2014, pur parlando del 1946, non si può raccontare l’amore lesbico e disperato di una delle protagoniste (Lene, che ama segretamente Nelly) in termini così preistorici. Non si può, e questo dettaglio incartapecorisce un film già claudicante di suo.

Peccato, quindi, che Phoenix segni una brutta battuta d’arresto nell’interessante filmografia di Christian Petzold. La realizzazione tecnica è al solito impeccabile, il cast – per lo star system crucco – stellare, ma il film, quello, non c’è. Restano tracce spettrali dei film precedenti, una per tutte Nina Hoss in bicicletta, dettaglio ritornante e ossessionante di un cinema che dovrebbe ritrovare il coraggio della quotidianità.

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