giovedì, Novembre 21, 2024

Picnic ad Hanging Rock – Il film di Peter Weir, il romanzo di Joan Lindsay e la miniserie: approfondimento

Dangle devils in a bottle
And push them from the pull of the bush 

(Kate Bush – The Dreaming)

Picnic ad Hanging Rock – L’incubo in pieno sole di Joan Lindsay

La luce e i dettagli di un sogno più vivido della realtà non abbandonano Joan Lindsay. Nonostante le nubi scure che coprono il cielo, le tracce di quell’esperienza onirica non svaniscono e continuano a dialogare con la memoria a lungo termine della scrittrice australiana. Il Monte Diogene, conosciuto anche come Hanging Rock, è al centro delle sue visioni notturne. Una formazione rocciosa nello stato federale del Victoria, a poco più di settanta chilometri da Melbourne, dove Joan era solita recarsi da bambina durante le vacanze estive. La dimensione mnestica, confusa abilmente con quella iconografica è il picnic famigliare, lo stesso che ricorre in una delle opere pastorali del paesaggista William Ford dipinta nel 1875: “At the hanging rock Mt. Macedon“.

La Lindsay si chiuderà in casa a scrivere durante una settimana invernale del 1966, dove l’alternanza tra il giorno e la notte sarà scandita da questo sogno in piena luce in grado di dettarle gli elementi essenziali e i dettagli del suo romanzo. In uno stato di trance tra la consapevolezza e la possessione della scrittura automatica, sogna e scrive l’intera sequenza dei capitoli, delinea i personaggi per poi perfezionarli nella settimana successiva, combinandoli con le suggestioni del romanzo pastorale ed elegiaco, le influenze della letteratura gotica e una versione più astratta e meno fideista dello spiritualismo di Arthur Conan Doyle, quello di opere tra entusiasmo e frode come “The new revelation”, “The History of Spiritualism” e “The Edge of Unknown”, di cui era appassionata lettrice.

Picnic at Hanging Rock, la prima edizione del romanzo di Joan Lindsay (1967)

Picnic ad Hanging Rock – Il mito e la verità

Questo continuo oscillare da una dimensione all’altra, accompagnerà anche la cornice leggendaria di “Picnic at Hanging Rock” e il suo dialogo a distanza con il film di Peter Weir, a cominciare dalle prove documentali allestite ad arte per promuoverli entrambi attraverso un’aura di mistero. Eppure, la relazione nient’affatto simmetrica tra finzione e fatti viene ben descritta dalla stessa Lindsay quando si recherà in visita sul set, filmata dalla giornalista Patricia Lovell nel documentario televisivo “1900 – A Recollection“, inserito tra gli extra della Collector Edition pubblicata da Koch Media in versione Blu Ray. Avvicinandosi agli attori scelti dalla produzione come se fossero un’estensione della realtà spirituale esperita nel sogno, Joan si rifiuta di assumere la mediazione della maschera, parlando alla giovane Anne-Louise Lambert come se fosse realmente Miranda. La commistione tra mitopoiesi e verità è un dato essenziale per la Lindsay ed è proprio la presenza del mito a rendere possibile l’accesso al vero. Un livello di conoscenza che si avvicina a quello di un “conoscitore di segreti” dove la gerarchia che ci consente di distinguere il reale dall’immaginario è completamente sovvertita secondo altri principi di lettura e di interpretazione dei segni.

Diventa allora peregrino determinare quali e quanti siano gli elementi della cronaca confluiti nell’esplorazione della natura operata dalla Lindsay all’interno del suo romanzo, perché nella descrizione dell’atto creativo che testimonia alla stessa Lovell, c’è un punctum irriducibile che mostra una strada possibile attraverso forme più libere di gnosi, nonostante l’origine del “mito” rintracciata da Terence O’Neill riduca il mistero ad un breve articolo su una banale gita scolastica senza mistero, pubblicato nel 1919 sul Clyde school magazine da una tale Miss McCraw, insegnante dell’istituto il cui nome sarà recuperato dalla Lindsay per creare uno dei personaggi del romanzo.

La sua esplorazione del bush Australiano, tra morfologia del territorio, paesaggismo e connessioni con le origini, astrae nel romanzo d’ambiente il rito di passaggio del “cammino” di James Vance Marshall nell’outback australiano e anticipa quello più visionario e violento del William Golding di “Darkness Visible“, con la natura metamorfica al centro di un annientamento progressivo dei limiti esperienziali dell’individuo. Inutile dire, o forse utilissimo, che l’analisi autoptica sulla “verità” documentale costruita dalla Lindsay per supportare artificiosamente la comunicazione tra vita e romanzo, non aiuta a comprendere né l’opera della scrittrice australiana, né il film di Peter Weir.

Walkabout, l’adattamento del romanzo di James Vance Marshall diretto da Nicolas Roeg (1971)

La recente campagna culturale promossa dalla studentessa australiana Amy Spears con l’hashtag #mirandamustgo allo scopo di limitare i fenomeni di overtourism nell’area del Mount Macedon, si fa carico della consueta vis progressista, comune anche a battaglie come #metoo, dove la prassi dello smascheramento passa sopra le forme di costruzione del romanzo, la libertà dell’arte e gli studi semiotici con una superficialità censoria imbarazzante. La Spears in particolare parte dall’assunto che il mito delle giovani donne bianche, scomparse nella wilderness australiana, venga costantemente raccontato e reinventato, mentre la rimozione e lo spossessamento della cultura Aborigena è attivamente destinata all’oblio. Come a dire che la finzione ha contribuito a sabotare la verità storica su quei luoghi , rimuovendo vicende di oppressione e violenza e alimentando un culto turistico avvallato negli ultimi anni anche dalle guide Lonely Planet.

La campagna #mirandamustgo

Il mito della comitiva bianca che scompare  nella natura selvaggia ha sicuramente una struttura ricorrente e conta numerosi esempi nella letteratura coloniale australiana, questi identificano in una serie di tragedie documentate o finzionali la dimensione ostile del paesaggio originario, sostituendo con il racconto delle sofferenze patite dalla civiltà dominante la Storia delle atrocità commesse. In realtà, l’ambiguità del lavoro della Lindsay e la lettura che ne farà Peter Weir, sono due visioni sorprendenti su questo rimosso e sugli effetti che ha generato sulle culture del dominio, incapaci di dialogare con gli elementi e con l’alterità. Il sistema di autofinzione messo in piedi dalla Lindsay e da Weir con strumenti diversi, scivola tra le maglie del linguaggio e costruisce un percorso più complesso rispetto a quello individuato dai nuovi detrattori. Entrambi cancellano le tracce percorribili come Danny nel labirinto di Shining, reinventando numerose mitologie a partire da quella elegiaca, e soprattutto, evitando la trappola di una narrazione risolutiva grazie ad un progressivo slittamento del soggetto della visione e ad una genesi stratificata dei processi identitari che la sottendono, a partire dalla nozione di razionalismo intesa come necessità causale. “Per Picnic – racconta Weir in un’intervista storica del 1976 –  che implica un mistero senza soluzione, ero consapevole di dover ipnotizzare il pubblico, per indurlo nella dimensione del sogno, così da disattendere l’aspettativa di una conclusione convenzionale“. Difficile, per quanto riguarda il grande cineasta australiano, separare “Picnic ad hanging rock” da un corpus filmografico che dialoga fluidamente a distanza di pochi anni o di decenni, tanto che i segni de “L’ultima Onda”, l’idraulico di ‘The Plumber’ e la serra di ‘Green Card’, per indicare alcuni elementi ricorrenti, spiegano e raccontano le paure e le ossessioni del mondo occidentale rispetto alla penetrazione di alterità culturali e spirituali sepolte, rimosse e contrastate.

Green Card – Peter Weir (1991)

Picnic ad Hanging Rock – le studentesse dell’Appleyard college

Ambientato nel 1900, il romanzo e il film seguono il percorso di un gruppo di studentesse dell’Appleyard College condotte durante il giorno di San Valentino ad un picnic scolastico nell’area sottostante tra il Monte Macedon e il Monte Diogene, al centro del paesaggio naturale della Victoria. Tre di loro, insieme ad un’insegnante, si avventurano sulla formazione rocciosa di origine vulcanica, per scomparire tra le cime. Solo una di queste sarà successivamente ritrovata priva di conoscenza e senza alcun ricordo di quello che è accaduto in vetta al minaccioso complesso. La ricerca e la presenza impalpabile delle ragazze, ormai parte integrante della natura stessa, influenzerà irreversibilmente la vita nell’istituto diretto dall’algida Mrs. Appleyard, fino a disgregarne i principi costitutivi.

Picnic ad Hanging Rock – Il film di Peter Weir

Dopo un lungo apprendistato nella forma breve tra cinema e televisione, Peter Weir affronta il suo secondo lungometraggio destinato ad una distribuzione cinematografica ad un anno di distanza dall’insuccesso del visionario  “The Cars That Ate Paris”. È Patricia Lovell a stimolarlo, passandogli una copia del romanzo scritto otto anni prima dalla Lindsay, dopo aver visto “Michael“, il segmento che il cineasta australiano aveva girato per il film collettivo “Three to Go”, perturbante commistione tra violenza documentaria e metacinema, nella direzione del “Wargame” di Peter Watkins, dove al Kent dilaniato dalla guerra nucleare di quest’ultimo si sostituisce una Sidney incendiata e sotto assedio, tra istanze rivoluzionarie, manipolazione mediatica e repressione di Stato. 

Quel luogo di passaggio tra realtà e immaginario ideato per Il Commonwealth Film Unit, colpisce la giornalista australiana, tanto da indurla a convincerlo a lavorare sul testo della Lindsay. Dopo aver ottenuto il consenso dalla scrittrice e opzionato l’esclusiva sul testo per una cifra ridicola, Peter Weir e la Lovell mettono insieme il cast, compiono i primi sopralluoghi e cercano i finanziamenti, coinvolgendo numerose film corporation del paese. A scrivere la sceneggiatura è un autore televisivo, Cliff Green, che dopo Picnic lavorerà per due film di Ken Hannam, tra cui “Summerfield”, thriller che risente in qualche modo dell’influenza del film di Weir, per poi ritornare senza interruzioni alla produzione televisiva.

Picnic ad Hanging Rock – Joan Lindsay, Peter Weir e gli impressionisti australiani

Ad ispirare l’estetica e le scelte di “Picnic at hanging rock” sarà anche la casa della Lindsay, Mulberry Hill adesso sito storico, allora occupata dai dipinti della scrittrice e da una notevole collezione di impressionisti australiani che irrimediabilmente imposteranno molte delle scelte visive di Weir. Alcuni dei dipinti di Frederick McCubbin, una delle figure di spicco della scuola di  Heidelberg e maestro della stessa Lindsay quando in giovane età studiava pittura, sono sospesi a metà tra lo stato contemplativo e il senso di perdita; “Lost”, opera del 1896 conservata alla Galleria Nazionale di Vittoria, cattura quel contrasto tra civilizzazione Europea e le caratteristiche “ostili” del bush australiano, isolando al centro di una selva una figura femminile osservata da lontano. Una prospettiva che a più riprese viene riprodotta da Weir nel suo film. 

Frederick McCubbin – Lost (1896)

Picnic ad Hanging Rock – l’immateriale

Le riprese di “Picnic at Hanging Rock cominciano nel febbraio del 1975 e si protraggono per sei settimane. Insieme a Russell Boyd, direttore della fotografia di molti suoi film fino a “The Way Back”, Weir cercherà quella qualità pittorica di cui parlavamo, frapponendo una serie di ostacoli della visione alle lenti: tessuti, veli da sposa, filtri “materiali” in grado di creare una convergenza tra la tattilità del pennello e l’evanescenza della dagherrotipia.

Più che al mistero Weir è interessato all’influenza che questo esercita sui personaggi e gli ambienti. Nella costruzione di un’atmosfera sempre più claustrofobica, segue le indicazioni della Lindsay creando un incubo in pieno sole e spostando l’enfasi dalla consapevolezza dei fatti all’impalpabile tensione tra oggetti, persone e natura. È lo stesso Weir, nell’intervista rilasciata a Sight & Sound nella primavera del 1976, a rivelare il suo interesse per le atmosfere a discapito dei personaggi. Una prassi che conduce lo spettatore a riconoscere lentamente la presenza di un’entità immateriale grazie agli strumenti semantici messi in gioco.

Picnic ad Hanging Rock – Suoni dall’altrove

Uno dei più effettivi in questo senso è il lavoro di sound design applicato da Weir per creare contrasti percettivi e aurali. Oltre all’impiego dello slow motion, non solo nella forma evidente delle sequenze più note, ma anche come impercettibile sovrapposizione tra sguardo e coscienza, Weir introduce una serie di suoni sotto la soglia dell’udibile. Questi assumono, alternativamente, la forma del rumore bianco, di un’amplificazione distorta degli epifenomeni sonori ambientali, delle vibrazioni di un terremoto registrate e successivamente rallentate e riprodotte al contrario. Tempo e spazio subiscono una sconnessione, rivelando l’ignoto attraverso ciò che si presumeva fosse noto. Weir cerca costantemente uno spazio di convergenza tra gli stereotipi del suono narrativo e altre forme di astrazione percettiva. Convivono nel film tutti gli stati di passaggio da una dimensione aurale all’altra. Non solo gli elementi sonori della natura, i suoni incrementati di un brulicare altrimenti impercettibile, ma anche l’impiego di alcune manipolazioni sulla documentazione sonora della realtà, in grado di agire sullo spettatore come stimolo di un’area percettiva che risiede tra coscienza e sogno, famigliarità ed estraneità.  L’esempio del terremoto che abbiamo citato, sollecita la memoria individuale o storica di un fenomeno, rendendola arcana e non del tutto (ir)riconoscibile. Convive quindi un livello viscerale di registrazione del suono, con quello subcosciente legato ad una possibile e successiva elaborazione. Prassi che traduce l’uso spregiudicato e disorientante che la Lindsay fa dei tempi verbali nel suo romanzo, suggerendo con un cambio di paradigma repentino e apparentemente incongruo, la presenza nell’istante di più osservatori e diversi piani temporali.

Picnic at Hanging Rock – Peter Weir (1975)

Le alterazioni sonore di Weir assolvono una funzione simile, cambiando spesso la prossimità tra microfoni e fauna naturale, mutuando tecniche di ripresa sonora dal documentarismo naturalista. Tutta la sequenza dell’assorbimento delle ragazze nel paesaggio roccioso, segue un criterio simile, invertendo le priorità e sottraendo letteralmente suono all’immagine. Non è una sequenza completamente immersa nel silenzio, ma sfrutta questa sospensione percettiva per introdurre un drone ostinato, la cui origine diventa indicibile. Solo l’urlo di Edith (Christine Schuler) ci costringerà a vivere un risveglio traumatico, compromettendo così l’ordine razionale, con una distorsione degli elementi visivi e sonori. Le citazioni da Poe, il sonetto di William Shakespeare letto all’inizio e incorporato nella cornice della lettera d’amore, il repertorio classico che ricorre a Mozart, Bach, Beethoven e Tchaikovsky per commentare alcune sequenze, vengono ripetuti e sconnessi nello spazio illogico del sogno, più che nella dimensione narrativa del ricordo. Acquisiscono quindi insieme ai dialoghi una qualità aurale, tesa a rivelare il fluire della coscienza, distante dalle funzioni del racconto classico. La scelta della colonna sonora, quasi interamente costruita da frammenti della tradizione colta, servono ancora una volta a Weir per lavorare sulla convergenza di schemi temporali incongrui, dove alla nozione tradizionale di tempo viene opposto il motivo ricorrente dell’atemporalità e della ciclicità. La sequenza della festa in riva al lago, commentata dal quartetto mozartiano “Eine kleine Nachtmusik” è immersa in un contesto alieno, con il bush che preme dai margini; la musica, oltre la sua funzione apparentemente accessoria e legata alla descrizione dell’ambiente, collide entro uno spazio altro per poi essere progressivamente inghiottita da altri suoni, mentre la tradizione europea viene spinta nel luogo di un sogno “contro” un altro sogno.

Il popolare tema del film caratterizzato dal flauto di pan del romeno Gheorghe Zamfir assume un valore simile, soprattutto se messo in relazione con il brano originale composto da  Bruce Smeaton per il film e legato all’avvicinamento delle ragazze nei pressi del complesso roccioso. Nel primo caso la presenza del flauto allude ad un elemento pagano al di fuori del canone cristiano-europeo, contribuendo a costruire una sospensione semantica tra due tradizioni, senza riferirsi esplicitamente né all’una né all’altra. Lo stesso Weir, in un’intervista più recente rispetto agli anni di realizzazione del film, ha parlato di un mondo nascosto sotto il velo del dominio coloniale e che forse non avrebbe avuto la stessa forza se al posto del flauto fosse stato utilizzato il suono riconoscibile del digeridoo. Anche il tema scritto da Smeaton, dialoga con due mondi. Animato da un incedere ascensionale, connette le asperità della terra con quelle dell’orizzonte, simulando la presenza di voci ultraumane con il ricorso al Mellotron, in contrasto con la struttura pianistica del brano. Il superamento dei limiti in “Picnic ad Hanging rock” diventa quindi anche questione sonora; stratificando le sorgenti e gli effetti della percezione aurale, Peter Weir scrive un trattato tutt’oggi potentissimo sulla perdita delle coordinate identitarie, attraverso un’esperienza dalla qualità fortemente sensoriale. 

Picnic ad Hanging Rock – La natura, il tempo e la perdita

Il senso di alterità della natura selvaggia australiana viene evidenziato dal contrasto con i continui riferimenti intertestuali alla cultura europea inseriti durante tutta la durata del film. Tra i numerosi innesti letterari e iconografici, quello evidente che associa a Botticelli l’ultima visione di Miranda mentre con un cenno della mano saluta Mlle. de Poitiers (una splendida e vibrante Helen Morse), rimasta con gli altri nell’area del picnic. “Adesso so – rivela a Miss McCraw – che Miranda è un angelo del Botticelli“. Ma il fugace dettaglio sul catalogo illustrato che la De Poitiers sfoglia un attimo prima di comunicare il suo pensiero, si riferisce a “La nascita di Venere”, una connessione con il mito che viene allusa a più riprese, per l’influenza erotica che il fascino della ragazza esercita su entrambi i sessi e in alcune sequenze tagliate dove dalla zona più oscura della foresta, Michael è convinto di scorgere una fugace apparizione di Miranda, completamente nuda e in una posa che ricorda l’opera del pittore fiorentino.

Anne Louise Lambert è Miranda in Picnic ad Hanging Rock (1975)

Le caratteristiche eteree di Miranda vengono evidenziate da Weir sin dall’inizio del film. Riflessa in uno specchio, volto sovrimpresso sul volo di uno stormo di uccelli, osservata a distanza un attimo prima di scomparire tra gli elementi, viene costantemente messa in relazione con i fenomeni della natura e confusa con la luce, dalla quale sembra promanare con la qualità di un riverbero.
Bellezza e morte che comunicano attraverso la dimensione atemporale dischiusa dalla roccia.

Dissolta e trasmutata in una categoria del tempo, Miranda diventa irraggiungibile come il fermo immagine conclusivo, declinando ulteriormente quel senso elegiaco della perdita che attraversa tutto il film.  Perdita di un centro, perdita delle coordinate spazio-temporali e della stessa cronologia del racconto, ma anche perdita di identità e dell’idea di patria. L’area naturale dominata dal Monte Diogene si rivela in questo senso come transizionale, perché sottende la cultura Aborigena e allo stesso tempo la sua rimozione, facendo emergere uno spazio di antimateria che inghiotte il mondo come i segni rituali che infesteranno la Sidney de “L’ultima Onda”,  preconizzandone la fine. Cultura e mito europei vengono in qualche modo disintegrati e designificati dalla loro collocazione come icone della cannibalizzazione coloniale.

L’ultima Onda – Peter Weir (1977)

Picnic ad Hanging Rock – Lo spazio come un campo di battaglia

La struttura vulcanica del monte si oppone a quella neoclassica dell’Appleyard College, un contrasto mediato dalla rappresentazione stratificata e graduale del paesaggio, che Weir filtra con le influenze impressioniste della scuola di Heidelberg , fino a oltrepassare l’incorporazione europea verso il luogo della trasformazione. 
Le opposizioni simboliche sono numerose; dai corsetti che stringono i corpi delle studentesse, fino al vestito scarlatto indossato da Irma (Karen Robson) quando spezza la simmetria virginale dell’aula di musica. 

Irma e il vestito scarlatto in Picnic at Hanging Rock

Quella che sembra una delle sequenze più enigmatiche del film, contrappone la rinascita nel desiderio al rigore ferocemente sadico della cultura protestante; mentre Irma scatena l’irrazionale tra le compagne, lo sguardo atterrito di  Mlle. de Poitiers scorge improvvisamente Sara (Margaret Nelson) legata ai praticabili per gli esercizi con uno strumento di punizione costrittiva. Weir si sofferma sui volti delle ragazze in preda al delirio, sul pianto di Irma e sul volto perversamente soddisfatto di Miss Lumley, l’insegnante interpretata da Kirsty Child, sovrapponendo una molteplicità di registri e rimanendo sempre al di qua dello schermo, rispetto all’indicibile.  Due dimensioni del corpo e dello spirito che vengono disposte come in un campo di battaglia, con le formiche che invadono l’area del picnic, i rettili che strisciano vicino ai corpi delle ragazze, le piante che si muovono nella serra del collegio, la pietra nera della roccia che domina con la forza distruttiva di un grande magnete, le rocce che incorporano volti ancestrali, come quelli di un Rushmore primordiale, scolpito dalla natura.

 

Picnic ad hanging rock – Il tempo del sogno, Il tempo della realtà: Noi. E gli altri

L’Appleyard College già nel 1900 era un anacronismo architettonico nel bush australiano – scrive Joan Lindsay nelle prime pagine del suo romanzo – un disadattato senza speranza, nel tempo e nello spazio“.  Un impossibile sogno europeo lasciato a se stesso nel bush, come dirà lo sceneggiatore Cliff Green, commentando a distanza le pagine del libro. A questa revisione e integrazione della terra secondo i parametri del vecchio continente, la natura resiste e il paesaggio si muove. Nella dimensione onirica suggerita dalla citazione di Edgar Allan Poe che contiene il film in un guscio,  il sonno di Miranda sembra generare la minacciosa roccia vulcanica che emerge dalla nebbia, in una soggettiva ben precisa esperita dai suoi desideri. Quella che occupa è una posizione creatrice nel tempo del sogno aborigeno, la stessa del serpente arcobaleno che dal “Dreamtime” immagina e genera fertilità.

Miranda, nel tempo del sogno

Al desiderio di trasformazione della ragazza, nella piena consapevolezza del sogno, si contrappone la violenza antimetafisica del colonizzatore. Incapace di comprendere i segni di una natura che vorrebbe irregimentare, se non nei termini di una realtà che sfugge al raziocinio bellico della conquista, Mrs. Appleyard, custode di un avamposto prima ancora che direttrice di un collegio, si difende dall’alterità insinuando il dubbio della parola.
Weir disinnesca la tradizione del giallo deduttivo, disseminando tracce iconografiche, difetti della percezione, riflessi della luce e miraggi, senza spiegare l’origine e la fine dello sguardo, proprio perché come ci rivelerà Miranda sulla roccia, queste coincidono. Come uno spettatore in cerca di risposte, la paura dell’ignoto genererà mostri: la violenza sessuale, il rapimento, il demonio, la fine della civiltà.

Minacce all’identità nazionale.

Picnic ad hanging rock – La Collectors Edition Blu Ray – Koch Media, i contenuti speciali

Koch Media pubblica la Collector edition del film di Peter Weir in un’edizione disco singolo con circa 151 minuti di contenuti speciali. La versione Koch recupera il Director’s Cut, della stessa durata del film originariamente distribuito nelle sale. Nella sezione “Scene eliminate dalla Director’s Cut” vengono delineate le differenze tra le due versioni, il più delle volte legate a brevi tagli e sostituzioni; si tratta di un documento utile per comprendere l’accurato lavoro sottrattivo di Weir. Aspetto che emerge nel lungo documentario dedicato al “Making of di Picnic ad Hanging rock” dove si raccontano tutte le fasi di lavorazione film attraverso le voci di Weir, dello sceneggiatore Cliff Green, del direttore della fotografia Russell Boyd, di Anne-Louise Lambert e del resto del cast.

Tra gli aspetti più interessanti, la scena tagliata del nudo di Miranda, apparsa a Michael come una visione tra le fronde e il rapporto con l’eccentrica Rachel Roberts, che nel film interpreta Mrs. Appleyard, la direttrice del collegio. La Roberts, durante la lavorazione del film, impone i suoi ritmi e il suo metodo, recitando con una parrucca di sua proprietà (“non penserete che possa indossarne una già usata da un’altra attrice?“), quasi per alimentare la relazione sciamanica con gli oggetti, che attraversa tutta l’opera di Weir e che filtrate dallo sguardo europeo assume qualità feticistica. Allo stesso tempo chiede di girare la sequenza in esterni in cui si rivolge alle ragazze del collegio, da sola e senza astanti, per non essere distratta. Un distacco che contribuirà alla costruzione di una figura dalle pulsioni complesse, tutt’una con la struttura razionale del collegio, ma irrimediabilmente “fuori dal tempo e dallo spazio”. Padrona delle sue ospiti, impone loro una precisa scansione disciplinare, fatta di esercizio, regole, attività quotidiane e valori desunti dall’ecclesiologia riformata.

Rachel Roberts è monolitica come l’edificio che ha contribuito a generare, l’opposizione con il tempo del sogno dischiuso da Miranda è una vera e propria lotta per la sopravvivenza che si chiude con il mistero dell’unica morte mostrata da Weir, quella di Sara, e il volto impenetrabile di Mrs. Appleyard vestita a lutto. Tra le sequenze tagliate a cui si fa riferimento anche quella dove il suicidio della direttrice sotto il complesso vulcanico veniva in qualche modo mostrato attraverso il recupero del cadavere. 

A Recollection . . . Hanging Rock 1900” è un documentario prodotto nel 1975 e condotto sul set del film dalla giornalista Patricia Lovell. Tra le interviste al cast e alla crew, tutte realizzate durante la lavorazione del film e quindi orientate ad alimentarne il mistero anche in una direzione promozionale, emerge la testimonianza della scrittrice Joan Lindsay, sempre a metà tra costruzione mitopoietica, metafinzione e fede. Il concetto di verità espresso dall’abile autrice è più stratificato rispetto alle analisi fatte a posteriori e contiene già un’indicazione di metodo, legata alla prassi della visione interiore e alla concezione di un’altra temporalità che si muove oltre quella percepita. Mettendo insieme gli elementi evidenziati dai suoi più feroci detrattori con questa testimonianza, spicca l’operato di una donna di fiducia, una veggente confidenziale che dialoga a distanza con Daphne du Maurier e con alcuni personaggi immaginati da Herman Melville e Sinclair Lewis, sospesi tra miracolo e impostura, verità e menzogna.

Il Blu Ray Koch Media è contenuto in un bella slipcase di cartone ruvido e contiene un booklet illustrato con le fotografie scattate sul set durante la lavorazione del film e alcune still.

Picnic ad hanging rock – la miniserie 3 Blu Ray disc – Koch Media

I movimenti ondulatori della steady, il taglio sghembo ed esplicitamente pop delle inquadrature, la saturazione colorimetrica di Garry Phillips e l’ingombrante colonna sonora techno-orchestrale di Cezary Skubiszewski, caratterizzano e impostano il tono della miniserie Amazon scritta da Beatrix Christian e Alice Addison e diretta a sei mani da  Michael Rymer, Amanda Brotchie, e Larysa Kondracki. Chiaro sin dai primi venti minuti, quanto il taglio estetizzante connetta personaggi, oggetti, colori e spazi entro la dimensione dell’ipervisibilità. Tutto emerge in superficie, facendo convergere gli aspetti dichiaratamente metaforici con quelli del racconto. Da una parte c’è una precisa volontà di ricollocare e spostare i climax di un film come quello di Peter Weir che negava proprio la gradazione ascendente degli elementi narrativi, preferendo al contrario rotture, sospensioni e aberrazioni temporali. Dall’altra vengono esplicitati tutti i potenziali sottotesti allusi ed esaminati da decenni di interpretazioni sull’opera cinematografica, tanto da trasformare l’esperimento in uno strano metatesto che solletica le necessità scopiche, anche più volgari, dello spettatore medio. Ruoli e prossimità diverse, per intensità e frequenza, tendono a caratterizzare i personaggi in uno spazio narrativo apparentemente più ricco, ma del tutto bidimensionale per la forma esplicita che delinea le loro “biografie” all’interno dell’Appleyard College.

La prima differenza evidente è il personaggio di Hester Appleyard, distante anni luce dalla ieraticità protestante di Rachel Roberts, assume i tratti di quel “carnevale delle differenze” fatto di pura testualità e tipico del raggelamento post-moderno. Natalie Dormer indossa un paio di occhiali ovali che attraversano più di un’epoca e si fa strada con una concezione del mondo che mette insieme le caratteristiche dell’eroina gotica con quella di un villain BDSM. Questa relazione, tra sesso negato, costrizione e sorellanza identitaria, viene resa esplicita dall’impostazione fortemente grafica della serie, a partire dalla violenza mostrata e da una serie di elementi che nel film di Weir rimanevano nello spazio delle possibilità allusive.

Natalie Dormer è Hester Appleyard in Picnic at Hanging Rorck (Kech Media – miniserie)

La quattordicenne Inez Currõ per esempio, a cui viene affidato il ruolo di Sara Waybourne, viene sistematicamente punita e “torturata” nel tentativo di frenarne gli impulsi e fa la sua prima apparizione legata ai praticabili per gli esercizi, come nel film di Weir, ma osservati da una prospettiva così visibile e chiara da moderarne tutta la potenza allusiva che nel cinema del regista australiano assume la forma dell’esperienza nel suo farsi.

Del resto, tutta la serie mantiene una connessione specifica con gli elementi dei “testi originari”, ma interpretandoli da un punto di vista strettamente tematico, anche quando si affida al fascino della contemplazione visuale. Ed è visuale il sangue che scorre sui petali di rosa quando le ragazze suggellano un patto, visuale il bianco dei vestiti che si fonde con gli altri colori durante la scalata del complesso roccioso,  visuali tutte le sequenze che coinvolgono un atto di costrizione o di punizione corporale, tanto da esaurirsi in quella stessa cornice, senza consentire che l’immagine conduca altrove. Da questo punto di vista, il lavoro sul personaggio di Hester è quello che lascia il segno, rispetto alla volontà di costruire le strategie seriali intorno alla storia personale delle ragazze prima della scomparsa. La Dormer divora letteralmente la scena, selvaggia e dominatrice ha le qualità furenti di un’entità malvagia, quasi più presente della roccia stessa. Sul suo modo di gestire lo spazio e renderlo inospitale, si basa l’intera struttura della serie, a partire da come sono organizzate le inquadrature, nel gioco estremo della profondità di campo, tesa ad evidenziare la prepotenza e la presenza di un gesto, più che a mettere in relazione diversi piani della visione. Territorialità e identità non sono al centro del lavoro della Kondracki, tanto che di quel rapporto si perdono le tracce, a favore di una rappresentazione chiusa dello spazio, che si contrappone ad un’altra altrettanto immobile, separata dalle convenzioni del racconto onirico. Paradossalmente inattuale, parla forse alle nuove generazioni lavorando sulle ossessioni e le pulsioni adolescenziali, con una prossimità che è francamente rintracciabile anche altrove. Si sprecano le analisi in rete sulla “queerness” dei personaggi, nello stile autoptico che regala trentasettemila caratteri a ciascun personaggio, secondo quel filo che lega le analisi “popolari” e autoreferenziali dei blogger all’universo seriale, che sembra non dipendere da alcun passato, se non quello di una “storicizzazione” immediata che tratta la Storia delle immagini come quella degli aborigeni.

Quello che  ci preme dire è che la serie di “Picnic…” nel tentativo di conservare l’inesplicabilità del mistero come obiettivo dichiarato sin dalle prime immagini, è costretta a barare con lo spettatore stressando al massimo le connessioni tra personaggi, e chiudendo il discorso sull’assenza del tempo in una cornice già concepita per essere allargata ad libitum. Ferma agli elementi combinatori del puzzle, senza lavorare per sottrazione né cambiare le regole già scritte della forma seriale, “Picnic at hanging rock” si avvicina paradossalmente al capitolo finale del romanzo della Lindsay, pubblicato negli anni ottanta contro la sua volontà. In quelle pagine si cerca una soluzione, si da un nome all’esperienza dello spirito, si nega in buona sostanza la possibilità che il testo ci ipnotizzi. Il lavoro della Kondracki, preoccupato com’è di scolpire una serie di personaggi entro caratterizzazioni precise, sposta la percezione del mistero ai margini della tessitura; l’ossessione di eluderlo equivale a quella di spiegarlo ad ogni costo. 

Picnic ad hanging rock – la miniserie 3 Blu Ray disc – I Contenuti speciali

La miniserie proposta da Amazon Prime e pubblicata da Koch Media in versione Blu Ray contiene tutti i sei episodi nei primi due dischi e ne dedica un terzo ai contenuti speciali. Il disco è suddiviso in due parti, una dedicata ai B-Roll, l’altra alle interviste. Nella sezione B-Roll sono inclusi brevi filmati che mostrano i luoghi dove è stata girata la serie oltre ad alcuni momenti di lavorazione. Tra gli spazi documentati, oltre agli studi dell’australiana Freemantle che ha prodotto la serie, c’è l’area intorno all’hanging rock, la regione montuosa del Macedon, il parco Wattle.

La sezione interviste include solo alcune conversazioni con parte del cast, tra cui una lunga con Natalie Dormer e una con la giovane e talentuosa Inez Curro. Altri segmenti sono dedicati al lavoro scenografico, alle giornate di riprese presso la roccia. Completano la sezione le interviste ad uno dei tre registi della serie, Michael Rymer e alla sceneggiatrice Alice Addison.

La confezione Koch Media è molto simile a quella dedicat al film di Weir, con un bel slipcase in cartonato e un booklet illustrato incluso. 

 

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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