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Pistol di Danny Boyle: recensione

Nell' “augment d’etre” che favorisce la versione spontaneista di Jones, con l'illusione di ristabilire una verità mitologica contro altre possibili, Boyle come McLaren lavora con "bave" e "detriti" e perde di nuovo l'occasione, tranne in rarissimi momenti, di inseguire l'essenza di un gesto anarchico sospeso tra intenzione e materia. Su "Pistol", la deludente miniserie di Danny Boyle in sei episodi, dall'8 settembre disponibile su Star, all'interno di Disney+

La voce di Steve Jones è l’ultima, tra quelle dei protagonisti che si sono espressi sulla storia dei Sex Pistols. L’autobiografia del chitarrista inglese esce nel 2016 e segue la lunga scia di appropriazioni del punto di vista, tra risse e rivendicazioni, già messe in circolo dai prodotti editoriali di Glen Matlock e John Lydon. Prima di pubblicare Lonely Boy, Jones aveva centellinato alcuni episodi della sua vita nella trasmissione radiofonica Jonesy’s Jukebox, già trasformata in un podcast, come ulteriore veicolo di promozione per il film di Danny Boyle, che si ispira direttamente al volume dell’ex Sex Pistols.

Aneddotico, verboso e prevedibilmente autoassolutorio, il libro funziona come vero e proprio racconto di formazione di una lost generation che annega nel nichilismo i sogni infranti delle controculture, trovandosi in quel crocevia pericolosissimo tra supposta autenticità e le nuove mutazioni del mercato. L’autenticità è in effetti la strategia retorica utilizzata da Lonely Boy, con uno sbilanciamento inevitabile sugli anni di una difficile educazione affettiva e per quanto riguarda i Pistols, sulle origini della band fino all’uscita di scena di Glen Matlock. Sono poco più di venti le pagine dedicate al pandemonio mediatico generato dai Sex Pistols tra il ’76 e il ’78, incluso il devastante concerto al Winterland Ballroom di San Francisco, canto del cigno andato in scena il 14 gennaio del 1978, dove quel “Ti sei mai sentito come se tu fossi stato ingannato?” pronunciato da Johnny Rotten prima di abbandonare microfono e palco, si presta ad una necessaria ridefinizione di tutti i sentimenti e le soggettive in gioco, dal politico al personale, senza l’illusione che sia possibile sdipanare un’interpretazione univoca.

Non stupiscono, ma funzionano con i medesimi meccanismi del circo mediatico, le risse a mezzo stampa che hanno visto John Lydon porsi come genio assoluto ed eterno escluso dal progetto di Danny Boyle e allo stesso tempo, negarne lo statuto per l’orrore di veder associato il marchio della produzione Disney all’espressione “purissima” di un gesto anarchico e situazionista.

Se a Lydon tutta la baracca serve in termini alimentari per rilanciare i progetti correnti con i PIL, la rabbia del ragazzo dai denti marci, è un gioco utilissimo per Boyle e la promozione della miniserie, tanto da lasciarsi sfuggire alcune dichiarazioni che sembrano fare il verso allo spirito del migliore, o se preferite del peggior Malcolm McLaren.

Scritti dall’australiano Craig Pearce, fedele sceneggiatore di Baz Luhrmann sin dai tempi di Ballroom – Gara di Ballo, i sei episodi di Pistol sono declinati a velocità ipercinetica, nel tentativo di appropriarsi del lessico Punk in termini visuali, quello che affonda le radici nei film di Brian Gibson, Penelope Spheeris, Amos Poe, Lech Kowalski, Allan Moyle, Susan Seidelman, Alex Cox, Lou Adler, Jonathan Kaplan, risemantizzato nei decenni successivi dall’advertising di massa, dai promo video, dall’arte combinatoria prestata agli artwork, dalle mutazioni della moda.

Da una parte quindi l’idea di determinare l’anno zero di questa impollinazione, concentrando la dialettica combinatoria tra senso e segno nell’avventura di Vivienne Westwood e Malcolm McLaren, dall’altra accogliendo stimoli tra i più disparati, all’interno della traccia romanzesca impostata dall’autobiografia di Steve Jones.

Niente di nuovo né alcun rischio spoiler, se ci attenessimo ad eventi e personaggi, rispetto a quello che si può apprendere dalle testimonianze, scritte o meno in prima persona, fino alle analisi e al lavoro di documentazione di autori come Jon Savage. Affrontare Pistol in termini filologici, snidando le esagerazioni, i riferimenti meno accurati, i tradimenti e le menzogne, oltre a non tener conto della natura del materiale di partenza, risulterebbe inutile e fuori dal contesto in cui Boyle ha deciso di muoversi.

Più della drammaturgia, ci interessa quindi il modo in cui questa reagisce con l’immagine, la visione, lo sguardo.

Tranne rarissimi casi, da sempre il regista inglese sovrappone alla capacità di guardare, un esibito “talento” visuale che non contribuisce alla stratificazione dello sguardo, ma applica una versione aumentata dello stesso, come se la dinamica del dispositivo fosse più interessante di ciò che osserva. In Pistol, nei momenti in cui il gioco sembra farsi selvaggio e violento, la distanza da muco e sangue viene improvvisamente marcata da un montaggio che spezza letteralmente la performance in due pezzi; quella degli attori coinvolti nel loro dialogo possibile con l’inferno, e l’occhio autoriale preoccupato di definire un territorio visuale esibito.

Nonostante la figura di McLaren sia quella più vicina al rischio di una caricatura vernacolare, restituendo la stessa ambiguità di Steve Jones nel costruire il ritratto dello scaltro produttore e accogliendo quindi punti di vista contrastanti sul suo operato, l’inautenticità come insistito distacco dalla materia trattata diventa una costante per Boyle, intenzionato a far convivere la tradizione del cinema britannico proletario con un assalto aurale e visivo ancorato alle sue stesse funzioni primarie.

Emerge una furbizia davvero ingombrante, nel modo in cui, oltre alla narrazione autocelebrativa di Jones, viene sfruttato tutto il percorso tracciato da Julien Temple in The Filth and the Fury, da cui desume buona parte dell’impianto visivo, delle rimesse in scena, della relazione tra found footage e testimonianza, dell’andamento ritmico. Boyle clona tutto l’impianto formale e ideologico da quel film, reintroducendo l’ipotesi che i Sex Pistols superino il cinismo di McLaren e riescano a definire per la prima volta uno iato tra l’intensità rivoluzionaria dell’istante e la successiva capitolazione nel maelstrom della comunicazione. Ma a differenza del progetto abissale di Temple, film dolente e intimo, in grado di testimoniare la presenza ancora viva di immagini fantasmatiche e distanti, Boyle sembra ricombinare lo spirito mistificatorio di Who Killed Bambi?, mentre cerca di frapporre una distanza critica con il lavoro dello stesso Temple, ritratto come un giovane studente incapace di sostenere il proprio sguardo. Eppure, lo smembramento che Boyle si diverte a fare sulla carcassa di The Great Rock ‘n’ Roll Swindle, è il sintomo di una serialità concepita per la Netflix Generation, allevata su YouTube secondo principi di equitemporalità e di appartenenza che vorrebbero proporsi come transgenerazionali.

Nell’ “augment d’etre” che favorisce la versione spontaneista di Jones, con l’illusione di ristabilire una verità mitologica contro altre possibili, Boyle come McLaren lavora con “bave” e “detriti” e perde di nuovo l’occasione, tranne in rarissimi momenti, di inseguire l’essenza di un gesto anarchico sospeso tra intenzione e materia.

Rimane l’intensità di alcuni interpreti. Al netto del sovradimensionamento di Chrissie Hynde nell’economia dei fatti, a tratti demenziale e davvero moraleggiante quando si cerca di ridefinire i confini tra talento e intensità nelle attitudini punk, l’interpretazione di Sydney Chandler è tra quelle meno caricaturali e didascaliche, capace di tradurre l’urgenza e la forza umorale di un sentimento, riuscendo a far esplodere anche un territorio drammaturgico inerte. Emerge anche Emma Appleton; costantemente fuori posto e fuori luogo nel ritratto di Nancy Spungen che Boyle cerca di venderci da una prospettiva machista. L’attrice esce da quel teatrino contratto, sottraendosi dalle intenzioni parodiche del regista inglese, con forza e capacità distruttive. Quelli apparentemente più bravi, a partire da Anson Boon, totalmente sopra le righe nel tentativo di restituire la follia di Johnny Rotten, riempiono un tracciato già scritto come nel peggior teatro borghese, carnevale condiviso e riconoscibile, pronto per il consumo ipermediale.

Serve a poco la scelta del 4:3, una strizzatina d’occhio talmente battuta come una certa esibita laidità, che ormai scompare nelle modalità con cui formati, relitti vintage e altro modernariato, vengono quotidianamente rimediati da schermi e cornici condivise.

Se la morfologia londinese che esce fuori da Pistol sembra l’aspetto più stimolante dell’intera miniserie, nel tentativo di ricostruire il senso precario e selvaggio di performance sempre sul bordo, ci pensano Boyle e il montatore Jon Harris, specialista di un ipercinetismo di maniera pulp sin dal brutto The Snatch di Guy Ritchie, a disinnescarne la violenza e la disperazione.

[Foto stampa, fornite da ufficio stampa Disney+ Opinion Leader S.r.l. Cristiana Caimmi&Co / Anna Landini ]

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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