martedì, Dicembre 24, 2024

Planète B di Aude Léa Rapin: recensione, Venezia 81

A cavallo tra il reale della sorveglianza tecnocratica e la fuga nel virtuale, Planete B sovverte alcune stereotipie ideologiche sull'idea stessa di sguardo aumentato, reclamando con un attivismo urgente, il contatto con una natura perduta e accecata dal capitalocene. Visto a Venezia 81 nella sezione parallela della Settimana Internazionale Della Critica

Suggestivo che una mostra curata da Nicolas Bourriaud e presentata alla biennale arte del 2022, si intitolasse come il nuovo film diretto dalla francese Aude Léa Rapin. Il critico d’arte, prendendo le mosse dal suo stesso saggio “Inclusioni”, pubblicato due anni prima anche in Italia, immaginava il Pianeta B vacante negli slogan dell’eco-attivismo, elaborando quel delightful horror che informa il sublime Burkiano, nella compresenza tra umano e non umano.

Contro l’isolamento come conseguenza estrema delle tecnologie della sorveglianza, Bourriaud teorizzava un nuovo incontro tra natura e cultura, per ritrovare il contatto con l’esterno, definitivamente abortito dalla cultura post-moderna.

La critica al Capitalocene, ovvero di tutte le forme legate al capitalismo finanziario che derealizzano il mondo a puro dato, viene in qualche modo recuperata dalla regista francese secondo una traccia che accomuna alcune produzioni transalpine post Covid-19, accogliendo e scomponendo le intuizioni di Bourriaud in termini visuali.

La fantascienza nichilista del recente La Tour di Guillaume Nicloux, l’estetica cyberpunk di Mars Express, il bel film d’animazione realizzato da Jérémie Périn e l’ultimo Bonello, quello de La Bête, contengono già le traccie che Rapin intende seguire. Senza la fluidità transtorica di Bonello, che qui collabora come compositore, giocando sulle sonorità sintetiche degli anni ottanta, Planète B sembra evolversi a partire da presupposti simili a quelli di Otherlife, il bel film di Ben C. Lucas, da cui desume l’idea di prigione virtuale, come inganno neuronale che contrae lo spaziotempo di un potenziale detenuto.

Ma se il geniale regista australiano immergeva la visione VR nell’esperienza tutta nazionale e razionale di una flanerie urbana già negativamente strutturata come lotta funzionale per la cancellazione e l’addomesticamento della natura, il mondo immaginato da Rapin è completamente introiettato nello sguardo modificato della simulazione tecnologica.

L’occhio, tramite centrale in entrambi i film, in Planete B è costantemente scansionato, trafitto, negato nel transito apparente da un mondo all’altro, tanto da dislocare l’idea stessa di abuso e di violenza su entrambi i piani di realtà.

La guerriglia urbana che descrive la concitata resistenza degli eco-attivisti alla gestione autoritaria della Francia del 2039, viene filmata con quell’immersività tattile che caratterizza il cinema sviluppato nelle zone di guerra, ma la città scompare tra i gas lacrimogeni, i vicoli defunzionalizzati, e soprattutto nel ventre stesso di un’architettura labirintica votata allo sfruttamento della forza lavoro, che ha già espulso tutte le eccedenze.

Julia viene ferita ad un occhio e confinata come eco-terrotista nella replica di un paradiso naturale, per scontare una pena detentiva sulla scia della sperimentazione che dovrebbe risolvere il sovraffollamento nelle carceri. Nour è un’immigrata Irachena, giornalista perseguitata in patria, sull’orlo della clandestinità in Francia.

I due mondi, sdipanati in parallelo, contengono lo stesso codice genetico. Il primo sovrappone sogni ed incubi, sfruttando l’immaginaria relazione tra individuo e natura per corromperne i presupposti e piegarne la percezione come forma di tortura. Il secondo, infestato da tutti gli strumenti approntati dal capitalismo della sorveglianza ormai militarizzato, non lascia via di scampo se non si possiede la giusta conoscenza per modificare un dato, truccare un QR code, rintracciare un glitch nel sistema.

La possibilità di comunicazione espande quelle di fuga per entrambe le donne ed è rappresentata da un visore incustodito.

Un’idea semplice e già battuta, ma che Rapin affronta con un approccio selvaggio e urgente tipico della migliore fantascienza a basso costo, e soprattutto per sovvertire alcune stereotipie ideologiche sull’idea stessa di sguardo aumentato.

Mentre il simulacro dell’isola tropicale dove Julia incontra altre figure confinate nella virtualità, è pensato a partire dalla turistificazione dell’immaginario secondo le coordinate rappresentative del capitalismo per come l’aveva già preconizzato la fantascienza ballardiana, tanto da incorporare quella commistione di sublime ed orrore di cui parlavamo citando Burke; il mondo smaterializzato dei codici, del riconoscimento dell’iride, dell’occhio tecnologico che registra e sorveglia è invaso dall’oscurità, privato della luce naturale e mostra un esoscheletro opposto all’illuminazione pervasiva del virtuale.

Rapin suggerisce allora che all’organizzazione sociale di una realtà che ha cancellato il mondo e il contatto vitale con esso, quello disperatamente difeso dall’attivismo ecologico, si è sostituita una fuga nella dimensione virtuale che è la cataratta di questo stesso accecamento.

Le due prigioni sperimentate da Julia e Nour non differiscono di molto. In entrambi i casi si tratta di immaginare l’anomalia come possibile via d’uscita.

Il sabotaggio della regia militare che impone la narrazione come legame tra i due livelli di realtà, può allora esser messo in atto quando l’occhio sempre spalancato delle intelligenze artificiali rivela improvvisamente il fuori campo. Questo è rappresentato dai corpi, stuprati, abusati, massacrati a cavallo tra i due mondi, ma improvvisamente liberi dalla caverna platonica in cui sono precipitati.

In quel quarto stato conclusivo che ci mostra Julia e Nour finalmente libere, vediamo per la prima volta l’occhio sfondato della prima. Immagine semplice quanto potente, nel ricondurre l’accecamento virtuale sul piano dolorosamente tattile, come assunzione tangibile di una responsabilità politica.

Planète B di Aude Léa Rapin (Francia. Belgio 2024 – 119 min)
Sceneggiatura: Aude Léa Rapin
Musiche: Bertrand Bonello
Fotografia: Jeanne Lapoire
interpreti: Adèle Exarchopoulos, Souheila Yacoub

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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