Nel cinema del Brasiliano Karim Aïnouz l’invito al viaggio perde quasi subito propellente e motivazioni originali. Che si tratti di una ricerca geologica, del proprio corpo come territorio apolide, oppure della disperata deriva di un amore sulle note di un brano di Chico Buarque, le anime che attraversano i film del regista di Fortaleza vengono sorprese dal vuoto della flaneurie, uno straniamento che dal cuore si riverbera in una penetrazione assoluta del paesaggio, con i corpi che ne diventano un elemento indistinto tra altri.
Questa immersione in uno spazio alieno determina lo spaesamento di Violeta (Alessandra Negrini) in O Abismo Prateado, oppure il senso di abbandono del Geologo di I Travel Because I Have to, I Come Back Because I Love You, dove il diario fotografico sviluppato nelle località del nordeste Brasiliano diventa una ricerca quasi Markeriana di se stessi nella Storia territoriale di un paese.
Nel suo ultimo film, Aïnouz non abbandona la dinamica del travelogue e del contrasto ambientale, sviluppando, con riferimenti probabilmente autobiografici, un viaggio dal Brasile a Berlino. Diviso in tre capitoli, il film si apre sulle note di Ghost Rider dei Suicide mentre due motociclisti solcano le dune de “la praia do futuro”; abbandonati successivamente alle onde di un mare agitato, faranno i conti con la violenza di una natura sconosciuta. Uno dei due scomparirà tra i flutti, mentre l’altro, il tedesco Konrad, attenderà un possibile ritrovamento del corpo, grazie anche all’interessamento di Donato, il bagnino di zona. Tra i due nascerà una relazione che li porterà nella terra di Konrad, a Berlino, paesaggio che Aïnouz sovrappone in modo affettivo e crudele a quello Brasiliano, in un continuo slittamento di appartenenza, senso, linguaggio.
Più di altri film del regista Brasiliano, Praia do futuro cerca il vuoto dell’immagine come effetto dello sradicamento, la difficoltà di osservare chiaramente la realtà e interpretare i propri sentimenti fuori dal territorio di origine; ad una prima parte di forte fisicità, dove i corpi riempiono l’inquadratura come fossero parte del paesaggio, Aïnouz sostituisce progressivamente un simulacro evanescente; Berlino per Donato è l’assenza del corpo, è l’acquario dello Zoo dove si immerge per lavoro, un ingranaggio “freddo” che sembra un ologramma sostitutivo del suo habitat.
Ecco che la fisicità viene totalmente a mancare, nella ricerca di una dimensione sospesa dove la perdita di se stessi sembra l’unica via possibile per accettare il mutamento; la stessa comparsa di Ayrton, il fratello di Donato, ha la funzione di un transito tra passato e futuro, un’emersione violenta e fisica che aggredisce e ferisce.
Quello che forse manca al film di Aïnouz per convincere sino in fondo è lo scollamento dalla cornice fotografica; abilissimo nel filmare ambienti che si smaterializzano l’uno nell’altro, spesso si perde nella superficie ambientale con il rischio di abbandonarsi ad una prospettiva contemplativa osservata dall’esterno, in una posizione sin troppo entomologica.