Senza voler scardinare la sinossi dell’ultimo lavoro dei fratelli Michael e Peter Spierig, ci preme dire che i paradossi ontologici di Predestination si basano proprio sul disinnesco dell’orchestrazione tra i punti di vista che regolano lo stesso dispositivo narrativo. Il “padre” del racconto, ovvero quello che dovrebbe attivarne lo sviluppo è al centro di una genesi ciclica non dissimile dal cortocircuito che collocava su un nastro di Moebius la stirpe dei Connor nel primo Terminator.
L’invenzione è radicata in quei tentativi letterari che hanno cercato di estremizzare il viaggio nel tempo di H.G. Wells, prima con Star, Bright di Mark Clifton e qualche anno dopo, all’inizio degli anni sessanta, con All You Zombies racconto di Robert Heinlein intitolato nella versione italiana “Tutti i miei fantasmi” e dal quale i fratelli Spierig hanno tratto questo film.
Il paradosso temporale ideato dal geniale autore di Butler viene recuperato integralmente dai due fratelli australiani che ne ampliano e sviluppano alcuni aspetti esclusi dal breve racconto originale. L’agente del tempo (Ethan Hawke) e la madre non sposata (Sarah Snook) sono al centro del gioco di moltiplicazioni identitarie presenti nel testo di Heinlein, ma a queste vengono aggiunte altre stream grazie ad una terza traccia, quella di un terrorista dinamitardo chiamato “Fizzle Bomber” e che in una falda temporale collocata a New York nel 1975 si è reso responsabile di una strage di grandi dimensioni, uccidendo undicimila persone.
Se quindi fermare il disastro prima ancora che accada è il compito dell’agente del tempo, gli Spierig dedicano in realtà molto spazio alla “madre non sposata” e alla sua identità liminale, vero e proprio soggetto eccentrico che, come direbbe Bell Hooks, “si allontana dalla propria posizione” abitando uno spazio che “rende possibili prospettive diverse ed in continuo cambiamento“.
È attraverso la sua intersessualità che gli Spierig allargano l’analisi su quelle frontiere “della differenza” che erano presenti solo in parte nel testo di Heinlein, recuperando in parte gli stimoli di alcuni titoli di fantascienza recenti come Source Code di Duncan Jones, The Box di Richard Kelly e ovviamente Looper di Rian Johnson, ma aggiungendo quell’essere fuori dal tempo che caratterizza ambienti e personaggi lungo il percorso del cinema Noir americano, da Rudolph Maté a Jacques Tourneur fino a Robert Altman, tenendo presente che questa stessa influenza rimaneva solo ad un livello allusivo nel testo di Heinlein, costruito con il ricorso al racconto in prima persona, tipico della narrativa hard boiled.
Tutto il lungo dialogo tra John/Jane e il barista è illuminato dalla fotografia di Ben Nott, già con gli Spierig nel precedente Daybreakers, come se si trattasse di un Edward Hopper rivisto con le dominanti cromatiche del cinema degli anni settanta, sulla lunga scia che procede da Abraham Polonsky fino a Walter Hill nel tentativo di recuperare l’essenza di quella pittura esistenzialista.
E la relazione con il cinema del passato, più che arenarsi sulla superficie del recupero nostalgico, reagisce con un impianto retro-futurista che cambia di senso ad ogni salto temporale, sfruttando persino i trucchi di un illusionismo di tradizione Mélièsiana incluse le sparizioni a vista e un lavoro sul volto cancellato che sta a metà tra l’uomo invisibile e il surrealismo feroce di Franju.
La stessa attenzione ai volti e agli oggetti ha quelle caratteristiche sottrattive che nei neo-noir puntano alla sconnessione tra memoria e funzione mnestica, come se fossero dei frammenti residuali emersi dal flusso di coscienza. A questo proposito, gli Spierig sembra stiano preparando un film che metterà al centro un fucile Winchester posseduto dai fantasmi delle persone che lo hanno utilizzato, ma al di là delle suggestioni, quello che è interessante in Predestination sono questi interstizi di cinema, a tratti anche ipnotici e lunghissimi, che resistendo al puzzle logico, descrivono gli interni di una città derealizzata, tra bar e lavanderie, come se fossero derive Bukowskiane.
Che i due australiani siano interessati ai “mai morti” o ai “già nati” come eccedenze politicamente marginali è chiaro fin da Undead, primo capitolo di un cinema a basso costo che a differenza dei multiversi nolaniani ad alto budget si avvicina ai corpi e agli attori con più amorevole onestà, mettendoli al centro di un labirinto cognitivo, che al netto di qualche incastro di troppo si riduce in questo caso a far da sfondo al cuore pulsante dell’intero film, quello di John/Jane, sintesi di un processo identitario che nei momenti migliori è già scritto nel volto della straordinaria Sarah Snook.