Lo spazio penitenziario inscritto in quello urbano, ma radicalmente separato dalla vita civica, rappresenta una spina nel fianco della cosiddetta Europa dei diritti. Non è semplice in questa sede introdurre un confronto rigoroso tra Spagna e Italia sui temi del sovraffollamento, il tasso dei suicidi, le condizioni igieniche delle celle, la mancanza di spazi per le madri che scontano una pena. Ci basterà ricordare che il diritto all’affettività dei detenuti è assolutamente negato nelle nostre carceri, mentre in Spagna le stanze adibite all’incontro intimo, sono una realtà effettiva, nell’ambito di un sistema di colloqui più articolato. Dati alla mano, quelli spagnoli sono i più bassi in relazione al costo per detenuto, mentre la spesa italiana è in crescita esponenziale e inversamente proporzionale all’investimento in attività formative, di recupero e di reinserimento concreto.
Il lungo percorso di emancipazione dalla quarantennale dittatura franchista comincia pochi anni dopo la morte del Caudillo, nel tentativo di definire una progressiva differenziazione costituzionale dalle leggi del regime, conosciuta con il termine di “transición”. La svolta inseguita dalla nuova classe dirigente ha quindi compreso anche il complesso normativo legato agli istituti penitenziari, fino a quel momento vera e propria discarica per dissidenti, omosessuali, senza tetto, prigionieri politici.
Il film di Alberto Rodríguez inizia nel febbraio del 1976, tre mesi dopo la morte di Franco e si conclude nel 1978, in parallelo all’approvazione della Consitución Española e prima della Ley Organica Penitenciaria dell’anno successivo. Indirizza quindi agli effetti del franchismo sul nuovo corso, una riflessione che più sottilmente si estende alla sopravvivenza della repressione nelle società democratiche.
Di inattuale nel lavoro del regista spagnolo c’è solo la struttura de La Modelo, il centro penitenziario di Barcellona chiuso nel giugno del 2017. Eretto nei primi anni del novecento su progetto degli architetti Salvador Vinyals e Josep Domènech, nasce come rielaborazione tarda delle teorizzazioni di Joseph Bentam e del suo Panopticon, le stesse che nei primi cinquant’anni del ventesimo secolo condurranno all’esplosione delle strutture radiali in tutta Europa, grazie ai perfezionamenti dell’ingegnere militare inglese Joshua Jebb, pensati per il penitenziario londinese di Pentonville alla fine del secolo precedente.
Sull’ipotesi di Bentam che un singolo punto di sorveglianza potesse consentire il controllo dell’intero complesso in un batter d’occhio, e che questa facoltà percettiva fosse amplificata dalla sua non reversibilità, grazie ad un accecamento di tutte le potenzialità ottiche dal punto di vista della cella, Rodríguez costruisce un piccolo saggio sulla visione rubata che sollecita due tipi di eccedenza. Quella tipica che si verifica nel confronto flagrante tra interno ed esterno e una connaturata all’atto di guardare, come continuo e irrisolto bilanciamento tra libertà e divieto.
Senza concedere troppo alla lettura asimmetrica Foucaultiana sulla società della sorveglianza, Prigione 77 condensa numerose suggestioni del cinema carcerario, incorporando la cronometria di Don Siegel e l’esteriorizzazione, più che la sostanza, di alcune immagini bressoniane, tra cui un frammento desunto da Pickpocket, espanso e riletto con quelle modalità che ne hanno fatto un topos nel cinema di Paul Schrader.
Nella tragedia collettiva e ristretta che accomuna vecchi prigionieri politici alle vittime di errori giudiziari, poveracci a detenuti congelati nell’attesa infinita del giudizio, emerge uno spettacolo dell’occhio legato a certo cinema della visione degli anni novanta. I divieti di guardare oltre una tenda, gli spioncini e le fenditure che si aprono improvvisamente allo sguardo, l’isolamento come cancellazione di tutte le facoltà percettive, il continuo spiarsi e intravedersi nello spazio concesso tra le celle, puntano verso il superamento di un limite definito dalle potenzialità dell’osservazione.
Il tentativo, tra rivolte ed evasione, è quello di conquistare un punto di vista negato che Rodríguez esemplifica con una serie di motivi ricorrenti.
Quando le richieste di amnistia causano la prima protesta, è il bulbo convesso del Panopticon ad essere occupato dai carcerati, con una sequenza tanto semplice quanto efficace che lancia le possibilità della visione oltre i confini imposti, determinando una breve inclusione dello spazio penitenziario nel reticolo dell’architettura urbana.
L’esclusione dalla vita cittadina viene quindi definita dalla brevità dei colloqui e dai ritagli di giornale che Lucia passa clandestinamente a Manuel attraverso la grata, ma anche dal bianco e nero della seduta parlamentare incorniciata nel catodo, quasi per determinare la distanza incolmabile dei reclusi dall’irrealtà del sistema e della stessa lotta politica.
La speranza allora rimane agganciata solo alle espansioni percettive. L’insegna al neon intravista da Manuel come unico frammento mondano, fata morgana elettrica la cui promessa è l’intermittenza di un futuro salto a colori degli apparecchi televisivi domestici. E ancora, il vestito optical che Lucia mostra all’amato e gli occhialini 3D anaglifici che dona al giovane contabile, affinché la realtà carceraria cambi forme e colori.
Questo vedere oltre come riflesso di una realtà negata, è l’attraversamento che Rodríguez compie in opposizione alla teatralizzazione dello spazio carcerario incorporata nella concezione del potere.
I recessi, gli ascensori in disuso, i corridoi e le stanze inconoscibili di un disegno sociale concentrico, vengono sfondati e sovvertiti con quell’estetica dell’assalto che il regista spagnolo rilegge alla luce di un’avventura dello sguardo.
Ecco perché la sequenza della fuga, pur nell’architettura magniloquente del dispositivo spettacolare, si risolve nell’improvvisa normalità di una strada ai margini della struttura e con il riconoscimento commovente e quotidiano nei gesti e nelle azioni comuni.
Ci sono tutte le antinomie tipiche del cinema dello spagnolo, nell’allestimento di progetti ambiziosi che condividono con la conoscenza della macchina industriale, l’organizzazione del set come dispositivo dello sguardo. Girare all’interno de La Modelo gli ha consentito di sovrapporre il livido realismo degli ambienti, con un incedere spettacolare che ricombina quello spazio secondo i principi di un cinema ad orologeria di marcata qualità scopica.
Rodríguez qui afferra il rovescio della realtà carceraria e lo investe nuovamente di un valore simbolico, con l’avvicinamento di Manuel al negozio di ottica dove lavora Lucia. Visione a colori che sospende il senso nel tempo del sogno, esasperando quell’iperrealtà di consumo che gli inviava promesse al neon attraverso le sbarre.
Le lotte e le mancate conquiste del sindacato, si dissolvono contro il muro impenetrabile del sistema, all’alba di una democrazia apparente, tanto che a Rodríguez interessa soprattutto la forza possibile di un gesto individualista, dove i rapporti di fratellanza sono ridotti al minimo.
Al centro di tutto questo, la crudeltà delle guardie carcerarie, a cui il sistema spagnolo affidava la maggior parte del controllo e l’immagine di un potere che nasconde le peggiori attitudini con una sospensione totale dello stato di diritto.
Sfortunatamente, le risonanze di alcuni orrori, incluse le immagini di una popolazione carceraria punita per reati bagatellari, le rinunce, le automutilazioni, gli scioperi per indulto e amnistia, sono davvero flagranti con le condizioni dei nostri penitenziari, nonostante le differenze storiche e la distanza temporale. L’ossessione che la pena venga inflitta con modalità “certe”, ci rende pericolosamente vicini ai segreti di un franchismo indisturbato e separato dalla società democratica da una cataratta di cemento e sbarre.
Prigione 77 di Alberto Rodríguez (Modelo 77, Spagna 2022 – 125 min)
Sceneggiatura: Alberto Rodriguez e Rafael Cobos
Interpreti: Miguel Herrán, Javier Gutiérrez, Jesús Carroza, Catalina Sopelana, Fernando Tejero, Xavi Sáez, Víctor Castilla, Alfonso Lara, Iñigo de la Iglesia, Iñigo Aranburu, Javier Lago, Javier Beltrán, Aimar Vega, Julián Valcárcel, Nacho Marraco, Polo Camino, Roberto Garrido, Mikel Losada
Fotografia: Alex Catalán
Montaggio: José M. G. Moyano
Musica: Julio de la Rosa