Uno più uno non fa due diceva Jeanne Marwan ne “La donna che canta“, mentre rivolgendosi ai suoi studenti di Matematica, citava gli studi probabilistici di Krishna Palem. I Labirinti di Prisoners, primo film Americano di Denis Villeneuve, invece di nascondere la soluzione nel progressivo disvelamento delle tessere di un puzzle, sono vicoli il cui ingresso non coincide con la dimensione temporale delle vie di fuga.
Il passato, che nel cinema del regista Canadese è quasi sempre un frammento collocato su una linea dinamica, qui convive nello spazio di un’immagine, come se i frammenti raccolti dalla scientifica attraverso una cronologia seriale di eventi, fossero scompaginati dall’introduzione di una soggettiva esterna dopo l’altra.
Mantenendo un altissimo livello di ambiguità, Villeneuve si appoggia alla sceneggiatura deturnante di Aaron Guzikowski per farne un film personalissimo e disperato, dove le domande che sembrano trovare finalmente una soluzione, vengono disattese da un’erosione di tutti gli stereotipi della detection, spinta in “Prisoners” verso un’aritmia e un asincronismo tali da rendere la visione come un’esperienza instabile.
Sottoposti ad un processo di sintesi e allo stesso tempo di disgregazione, gli elementi materiali, gli indizi, gli oggetti del cinema nero, diventano per Villeneuve tracce che puntano ad una pluralità di significati, la cui con-fusione è quella tra storia individuale e un più ampio processo politico e identitario.
Come in Incendies, lo sguardo ha un limitato raggio scopico, scopre le cose lasciando aperte possibilità combinatorie anche terribili, tanto che Villeneuve è da sempre interessato alla periferia della visione, qui accentuata dalla fotografia di Roger Deakins (Fargo, The Village) più scura e astratta del solito, basta pensare alla fuga in macchina del detective Loki che muta in una perdita traumatica della messa a fuoco.
La stessa serie degli indizi parte da un’origine che non conosciamo, ci troviamo già dentro i fatti, quasi il passato emergesse attraverso facoltà psicometriche, toccando oggetti, sfiorando elementi, riesumando cadaveri, attraversando spazi, precipitando dentro fossati che accolgono le sedimentazioni di un orrore di origine remota; eppure Villeneuve non si ferma all’erosione post-moderna, il suo non è un gioco di prestigio ma un cinema dallo sguardo fortemente politico vicino alla rilevazione delle “zone grigie” della Storia che scambiano di posizione le ragioni delle vittime e quelle dei carnefici.
Prisoners comincia con una durissima immagine di prigionia, quella di una natura indifferente rimodellata dai segni dell’ideologia; è la capacità di scagliare l’immagine e i segni contro la parola: l’abbattimento di un cervo viene preceduto dalla recitazione del “Padre Nostro”, è il cristianesimo integralista e survivalista di Keller (Hugh Jackman), la sua arma di difesa contro la deriva mondana.
Villeneuve scardina dall’interno il nichilismo apocalittico rovesciandone la mitologia isolazionista, con una serie di immagini di brutale semplicità; di li a poco sarà lo stesso Keller a trovarsi al centro dell’abisso, con Anna, il suo piccolo cucciolo, scomparsa d’improvviso insieme a Joy, la figlia dei Birch, una coppia di amici afro-americani con i quali sta trascorrendo il giorno del ringraziamento.
È l’inizio di una serie di rovesciamenti e di agnizioni che non consentono né di staccarsi da un personaggio né di aderire incondizionatamente al suo punto di vista; Villeneuve sembra in qualche modo amarli tutti con una capacità di coglierli soli in mezzo alla desolazione e alla perdita di se. Tutti prigionieri e tutti carnefici tranne i bambini, cellula originaria e irriducibile del tempo, l’unica in grado di ricordare a tutti le origini di una violenza che si esperisce prima di tutto in famiglia.
È commuovente il modo in cui il regista canadese riconfigura l’iconografia del serial killer nello stesso modo in cui Sufjan Stevens racconta la storia di John Wayne Gacy Jr, avvicinandosi ai gesti automatici e ripetitivi dell’infanzia, ai meccanismi di emulazione, al gioco come necessità primaria, all’ambivalenza di un gesto, come quello di Alex che osservato a distanza sembra voler impiccare il suo cagnolino.
Gli stessi “torturatori” sono schiacciati su uno sfondo senza vita; il sacerdote abbandonato al degrado e all’alcolismo (Len Cariou), la solitudine estrema di Holly Jones (Melissa Leo) congelata nel suo appartamento sospeso nel tempo, il cadavere trovato sotto le fondamenta della chiesa, quasi a segnare la fine di un male e l’inizio di un altro, lo stesso Keller a metà tra preghiera e orrore.
Villeneuve si serve spesso di un montaggio disgiuntivo, manda fuori pista lo stesso spettatore senza nascondere gli indizi, rispetto ai quali mantiene la stessa posizione di inconoscibilità; Prisoners non ha semplicemente un finale aperto, ma è la “serie” stessa dei crimini che si spacca verso percorsi alternativi sui quali Villeneuve, cosi come il detective Loki, non può inoltrare il racconto; sono immagini, precognizioni, re-immaginazioni del reale, sospensioni del tempo, risposte irrisolte che rimangono in una zona morta, come quella di Joy condivisa con Keller dopo il ritrovamento della bambina.
Ancora una volta sono i segni più della parola, a mostrare tutta l’ambiguità del significato; non solo i labirinti, tra emulazione di un processo cognitivo e vera e propria mappa “concreta”, ma anche il modo in cui Villeneuve evita qualsiasi forma didascalica tipica del whodunit, per non spiegare assolutamente niente, ma casomai spingere verso la forza associativa oppure disgiuntiva del segno stesso. In una recente intervista, Jake Gyllenhaal ha cercato di spiegare la presenza dei numerosi tatuaggi presenti sul corpo del detective; tracce di un passato che rimane senza risposta se non nel tentativo di Loki di nasconderle con vergogna, oppure di mostrarle con protervia durante un violento interrogatorio; quei segni riassumono in qualche modo molti degli indizi disseminati nel film e allo stesso tempo sembrano alludere ad un doloroso passato di prigionia.
L’indagine di Loki va avanti ad una velocità ridotta, arriva quasi sempre fuori sincrono, il suo esercizio sembra trascinarsi insieme ad una solitudine e ad un dolore indicibili; anche quando il supporto scientifico del riconoscimento fotografico degli oggetti sembra dalla sua parte, viene disatteso da una continua ricollocazione di quegli oggetti e della loro provenienza, in una spirale di cui non avrà mai il controllo.
In questa desolazione terribile, si conficca come un cuneo lo sguardo senza vita di Anna che in ospedale guarda quello di Loki; due bambini allo specchio.