Che Herzog abbia difficoltà con la forma racconto classica lo si era capito già negli anni Ottanta, quando l’estro estatico del cineasta bavarese cominciò ad appannarsi ogni volta che si trovava a dirigere attori, restando invece intatto – e tuttora foriero di sorprese – nell’approcciare il documentario.
Dalla morte di Kinski, Werner Herzog ha diretto pochissimi film «di finzione», che di finzione non sono mai dal momento che ama attingere a storie vere: il film di montagna “Grido di pietra” (1991), il nazidramma “Invincible” (2001), il Vietnamovie “Rescue Dawn” (2006, da uno spunto biografico già approfondito nel 1997 con “Little Dieter Wants to Fly”). Fa eccezione la strampalata coppia di film presentati a Venezia nel 2009, ovvero la versione reimmaginata del Cattivo tenente (immaginifica assai, dal momento che Herzog si rifiutò di vedere l’originale di Ferrara) e la «tragedia greca» “My Son, My Son, What Have Ye Done?”, prodotta da Lynch e forse anche per questo rapinosa, ipnotica, quasi memore del trattamento riservato agli attori di “Cuore di vetro” (1976).
Queen of the Desert segna il ritorno a un alveo produttivo più tradizionale ed elefantiaco, con tanto di diva nel ruolo principale – il primo ruolo femminile di spicco di tutta l’ormai cinquantenaria filmografia herzoghiana. L’esito, va detto subito, è inferiore alle più prudenti aspettative. Anche perché se l’intento scoperto è di fare un Lawrence d’Arabia muliebre, la prima sensazione è quella di un ritardo mostruoso che nemmeno gli attuali smottamenti geopolitici riescono a giustificare.
Il biopic narra per la prima volta la storia di Gertrude Bell, britannica annoiata dall’alta società cui appartiene e che un bel giorno sceglie di fiondarsi in Medio Oriente, dall’Iran all’Arabia, diventando un’esperta delle culture locali, facendosi valere in barba a maschilismi asiatici ed europei e arrivando a ridisegnare, letteralmente, alcune regioni all’indomani della Prima Guerra Mondiale e del crollo dell’Impero Ottomano. Si devono a lei, ad esempio, i confini dell’Iraq e della Giordania, e il «kingmaking» dei loro primi re. A lei, regina senza corona adorata dal vicino oriente.
Assertiva, audace, senza macchia e senza paura, l’avventuriera interpretata da Nicole Kidman ha un debole per la letteratura persiana… e per James Franco (risata del Berlinale Palast alla sua prima apparizione), qui negli improbabili panni di un inglese a Teheran con un passato da imbroglione del tavolo verde. Gertrude avrà pure a che fare, solo platonicamente, con Robert Pattinson (risata del Berlinale Palast alla sua prima apparizione), qui negli azzardatissimi panni di Lawrence d’Arabia, nientemeno, ma è la svenevole storia d’amore con Franco a segnare la biografia dell’eroina e a lanciarla di deserto in deserto. Là, tra le dune, il film acquista in solidità nella seconda parte.
In solidità ma non in nerbo. Per quanto le location siano mozzafiato e l’occhio di Herzog sia spontaneamente a proprio agio in una tempesta di sabbia o davanti a una mandria di dromedari all’abbeverata, Queen of the Desert resta ancorato a un calligrafismo senz’anima, a tratti persino lezioso. Forse non c’era altra via, trattandosi di una pellicola di produzione americana con una star del calibro di Kidman. Forse il tempo sarà galantuomo con questo Herzog slavato che riproduce, fin dal font dei titoli di testa, un’estetica da stanca Hollywood anni Sessanta. Eppure, anche ripensando a film altrettanto «medi», pensati per l’esportazione, come “Invincible” e “Rescue Dawn”, qui si avverte la mancanza di una zampata, di una lettura degna di Werner Herzog. E a mangiarsi la scarpa, come fece lui nel 1980 dopo una scommessa persa con Errol Morris, siamo noi spettatori che amiamo l’Herzog duro e puro, quello dei dromedari che cacano, degli ignoti spazi profondi e della natura naturans.