Scott McGehee e David Siegel a partire da Suture, il noir con cui hanno debuttato nel 1993, hanno sempre indagato gli aspetti più controversi dei legami di sangue, e tornano a farlo attraverso un melodramma famigliare che traspone i caratteri di un racconto di Henry James nella New York contemporanea, contesto urbano elettivo nella filmografia della coppia. Pubblicato all’interno di una raccolta nel 1897 “What Maisie Knew” ha una collocazione particolare nella complessa galleria di ritratti infantili Jamesiani, la sua Maisie Farange nasce un anno prima dei Miles e Flora di “Turn of the Screw” e pur non partecipando della stessa oscurità, è un personaggio centrale che osserva il mondo da un’angolatura soggettiva scoprendo gli aspetti più duri dei sentimenti e muovendosi nel mondo degli adulti con una consapevolezza mai espressa, quella che può scorgere il confine tra amore e dolore, affezione e perdita, attraverso le tracce dell’invisibile. Se i mutamenti sullo sfondo dell’ultimo James sono quelli della maschera Vittoriana che comincia a sgretolarsi, per McGehee e Siegel il territorio antropologico è quello della famiglia nucleare, il cui assetto tradizionale perde progressivamente credibilità e tenuta mostrando tutti gli aspetti più oscuri che insidiano i legami naturali.
Già adattata per lo schermo con due tv movie, uno dei quali diretto da Édouard Molinaro a metà anni 90, la versione di McGehee/Siegel conserva proprio lo sguardo del racconto di James; ancora così vicina agli oggetti del gioco la realtà osservata da Onata Aprile può assumere la forma di un’altalena vuota, del filetto disegnato sul cartone di una pizza, di un peek-a-boo il cui funzionamento meccanico allude in modo sottile allo spaesamento della bambina in uno spazio sconosciuto. È su questi dettagli che il film insiste, riducendo al minimo la parola e seguendo da vicino i gesti e i movimenti di un complesso percorso di formazione che mette in relazione i luoghi della ricerca interiore con le forme più triviali della realtà. I luoghi “segreti” e liminali della Maisie di James, sono veri e propri elementi “pastorali” che rappresentano un momento di raccoglimento, mondi di pura possibilità dove la coscienza fa esperienza di un processo di trasformazione in atto. Sono momenti destinati ad un violento capovolgimento che McGehee / Siegel conservano e traducono nel continuo entrare e uscire di Maisie dallo stupore per una nuova scoperta, come se il suo sguardo fosse capace di trasformare anche i luoghi più alieni, tra cui il Camper della madre, in una percezione “pura” del mondo.
Basta pensare al modo in cui Jack Clayton, nella sua versione di “Turn of the Screw” (The Innocents, 1961) mette insieme orrore e meraviglia in una sola visione, molto spesso legata alla contemplazione di spazi naturali idilliaci e a come, in un modo non dissimile, McGehee / Siegel lavorino sottilmente sul continuo slittamento di senso degli spazi attraverso l’esperienza percettiva di Maisie.
Se l’invisibile nella scrittura di James è allora un elemento che spesso contiene intrinsecamente la trasmutazione del bene in “male”, McGehee / Siegel ne conservano in un certo senso la forza visiva attraverso l’amore per il dettaglio, l’eliminazione di qualsiasi didascalia nel delineare i rapporti e una definizione progressiva dei personaggi, come se il loro ruolo venisse “scoperto” a poco a poco dallo sguardo di Maisie, incapace di introdurre una frattura volontaria tra ruoli e spazi. La relazione di Margo (Joanna Vanderham) con il padre della bimba, apparirà come un ruolo definito d’improvviso, così come la comparsa di Lincoln (Alexander Skarsgård) il nuovo compagno della madre, strano intruso che va a prenderla a scuola senza alcun preavviso.
Non è quindi il contesto allargato che diventa il luogo della mutazione, ma il modo in cui lo sguardo di Maisie elabora entro questo spazio instabile la ricerca del suo benessere, trovandolo nell’unica riconfigurazione dei legami possibile per un occhio puro, attraverso la cancellazione dei limiti e dei confini imposti dalle convenzioni. Nella commuovente sequenza di agnizione dove Maisie riconosce il ruolo della madre pur non volendo condividere il suo tempo con lei, è come se offrisse una lezione sulla separazione e sulla perdita alla stessa Susanna (Julianne Moore), una consapevolezza di spazi e ruoli affettivi che le consentano finalmente di scegliere dove stare.
McGehee / Siegel rendono questo passaggio sottilissimo attraverso una vera e propria esperienza dello sguardo, senza cercare l’effetto emotivo delle parole, ma allineandosi al silenzio e all’esperienza di Maisie seguendo le sue capacità contemplative. Viene in mente Kramer contro Kramer, ma non per la semplicissima analogia tematica, quanto per il significato che gli oggetti e lo spazio (aule di tribunali, un ascensore, diaframmi naturali, immagini della separazione nel film di Robert Benton) assumono nei due film.
Se ad alcuni critici è sembrato che nella versione di McGehee / Siegel venisse meno quell’ambiguità che attraversa tutto il racconto di James è forse per una maggiore familiarità con la parola e una minore confidenza con le immagini che non gridano significati ingombranti. Un momento prima che Maisie corra verso il molo per la desiderata escursione in barca, dopo il confronto con la madre, viene introdotta un’immagine di contrasto, quasi uno spazio liminale “Jamesiano” che separa la realtà dall’idillio, ed è un momento di assenza dove la bambina, finalmente assicurata in un luogo protetto, rimane ad osservare il vuoto; quello che Maisie sa è proprio nei puntini di sospensione.