Richard Curtis, uno dei più importanti sceneggiatori inglesi, a partire dai primi anni ’90 ha riconfigurato la commedia britannica con una fortissima vicinanza alla verità dei sentimenti; scelta che gli ha consentito di sfruttare la centralità dei suoi personaggi come materia viva da anteporre a qualsiasi collocazione sociale. Una ricerca di universalità che anche negli esempi più cinici, traeva forza dalla convivenza di un sentimento popolare con gli aspetti più intimi e sottili del racconto morale. Curtis ha sempre amato le sue creature a partire dai loro difetti minimi, e in questo senso “About time“, il cui titolo è molto più pregnante della terribile traduzione Italiana, riassume tutte le piccole increspature del suo cinema, la cui superficie è un’apparenza, un’esca per andare molto più a fondo.
About time, con la scusa, anzi dovremmo dire il vantaggio, della leggerezza, sembra in parte raccontare del “diventare spettro” di cui parlava Roland Barthes quando descriveva la fotografia come una breve esperienza di morte.
La capacità degli uomini della famiglia Lake di viaggiare nel tempo delle proprie vite, permette loro di sperimentare un ristagno di passato e presente lacerando il continuum temporale, così da riaggiustare il corso degli eventi da angolature sempre diverse; ma a differenza di un meccanismo causale inesorabile e meccanicistico, “About time” addensa delle portentose asincronie, come in quello splendido film sulle possibilità dell’amore che è Source Code di Duncan Jones.
A Curtis non interessa giocare come un orologiaio, combinando varianti e srotolando universi paralleli, ma al contrario punta ad inceppare gli ingranaggi, smontando e rimontando lo stesso film come fosse un saggio di regia, intesa come perdita progressiva del controllo.
Un aspetto non da poco per uno scrittore così acuminato ma allo stesso tempo attento al funzionamento della “situazione”.
Rispetto ad una vita come “allucinazione”, Curtis rimonta le immagini del suo film cercando sempre la flagranza dell’istante, quasi per negare quello stretto rapporto che sussiste tra fotografia, intesa come ricordo, e la morte, ovvero la medesima relazione che minaccia i “go betweener” di Non Lasciarmi o la Ruby Sparks di Dayton/Faris.
Senza il rischio di esagerare, non può non venire in mente Chris Marker quando Tim torna piccolo per correre sulla spiaggia con il padre oppure quando in una contrazione intima e desiderante del tempo, sua figlia lo saluta una, due, tre volte senza bisogno che la stessa cronometria collassi negativamente sulle loro vite. È la condensazione di un’intera vita nel magnifico paradosso del “momento”, in qualsiasi spaziotempo si trovi.