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Questo è domani – Gioventù, cultura e rabbia nel Regno Unito 1956-1967 di Silvia Albertazzi: recensione

Il domani di ieri, non è l'oggi. L'acuminata intuizione di "This is Tomorrow", la seminale mostra che metteva insieme architetti, pittori e scultori nella Londra del 1956 diventa uno dei punti di partenza per la rigorosa analisi di Silvia Albertazzi su alcuni avvenimenti culturali di quello stesso anno. Dal Free Cinema alla prima di "Look Back in Anger" di Osborne sarà un fiorire di suggestioni che animeranno il decennio successivo. Cosa è rimasto di quella rivoluzione culturale?

Sono tre gli avvenimenti centrali che per Silvia Albertazzi hanno caratterizzato la cultura inglese nel 1956. Anno cruciale che in qualche modo capitalizza gli stimoli e la spinta verso il cambiamento, inaugurata dal dopoguerra britannico e in parte disattesa da una lettura del Welfare State secondo coordinate che esacerbavano gli aspetti più assistenziali, invece di favorire un’idea comune legata alla relazione tra vita e cultura. Il primo programma del Free Cinema, la prima di “Look back in anger” di John Osborne e la mostra seminale “This is tomorrow” allestita alla Whitechapel Gallery concentrano una stratificazione di stimoli che dall’arte alla fotografia, dal cinema all’architettura, dalla moda al design, mettono al centro il ruolo della Gran Bretagna nel mondo.

Spinta verso la modernità che cambia radicalmente il panorama culturale, in grado di incarnare la reazione contro l’establishment e di assottigliare il confine tra esperienza e arte. Per Albertazzi, il “manifesto” di “This is Tomorrow”, individuato come progetto in divenire dove l’arte deve confidare nel futuro “per essere completata”, pone un interrogativo fondamentale per tutta la sua affascinante ricerca: quali e quante di quelle proposte, a sessant’anni di distanza, sono state completate?

Il volume è strutturato in tre capitoli, il primo dedicato alla poesia del quotidiano del Free Cinema, il secondo alla portata e all’influenza di “Look Back in anger” e il terzo a tutta l’arte pop introdotta da “This is Tomorrow”, fino alla definizione della “Swinging city”.

Dal 5 Febbraio del 1956 il National Film Theatre di Londra sceglie la sigla di “Free Cinema” per presentare una serie di documentari totalmente fuori dalle stereotipie degli studios e realizzati in totale indipendenza. Niente sperimentalismo autocompiaciuto, ma una resa del quotidiano attraverso un’ottica ribelle, dove la working class emerge fuori dalle categorie politiche consunte in tutta l’energia e l’insoddisfazione che l’attraversa. Critici e cineasti dietro la nuova onda britannica, che militano in riviste come Sequence e Sight and Sound e che rigettano le forme più intellettualistiche dei colleghi francesi.
Silvia Albertazzi delinea uno dei percorsi storicamente più precisi e puntuali in circolazione, integrando le mutazioni di un contesto storico-politico complesso, con quelle tendenze che hanno riconfigurato il linguaggio e la fruizione dei prodotti culturali. I nomi sono quelli di Lindsay Anderson, Karel Reisz, Tony Richardson e Lorenza Mazzetti, artisti liberi e seminali per le produzioni del decennio successivo. Cambia radicalmente l’idea di cinema del reale, rispetto alle manipolazioni di John Grierson, per favorire un cinema di poesia connesso idealmente con la ricerca di Jean Vigo e il cinema di Humphrey Jennings, tecnicamente vicino al “Movement” di Grierson, ma assolutamente diverso in termini di linguaggio e poetica.
La gente comune è il soggetto del Free Cinema, ma delinea verità che sono prima di tutto poetiche e non ancorate alla superficialità della dimensione sociale.
In particolare, il lavoro di Lorenza Mazzetti, fiorentina scampata alla strage di Rignano del 1944 e trapiantata a Londra, con lo splendido “Together“, mostra quell’attenzione verso l’umano che sollecita le stesse intuizioni degli altri autori del Free Cinema. Tutti i concetti del manifesto firmato da Anderson, Reisz, Richardson e Mazzetti si adattano, secondo Albertazzi, a molte delle produzioni culturali, tra teatro e letteratura, fotografia e arte, realizzate tra il 1956 e il 1957, dove “la perfezione non è lo scopo principale” ma è una certa impersonalità a far parlare le immagini o più in generale, le opere. Albertazzi fa l’esempio dei Beatles e dello spazio della canzone come veicolo di poesia popolare fruibile.
L’analisi del volume, si concentra quindi sui tre film del primo programma: O Dreamland di Lindsay Anderson, ritratto inedito per l’epoca delle gente comune inglese; Momma Don’t Allow di Karel Reisz, filmato al Wood Green, Jazz Club Londinese, il gà citato Together della Mazzetti, il più lungo del lotto e legato alla vita di due sordomuti dell’East End londinese.

Sono analisi ricche, seguono un modello comparato che parte dal testo filmico per raccontare un fermento più complesso che passa dall’analisi di alcune liriche dei Beatles all’influenza sulle produzioni degli anni successivi come Billy il Bugiardo di John Schlesinger, ma anche delineando i protagonisti storici e comunitari di una stratificata rivoluzione culturale.

A Look Back in Anger di John Osborne è dedicato il secondo capitolo del volume, a partire alla prima messa in scena al Royal Court Theatre l’otto maggio del 1956. Tony Richardson dirige la scena e riesce a mettere insieme un gruppo di giovani attori con lo scopo di svecchiare il teatro inglese. I nomi sono quelli di Kenneth Haigh , Mary Ure e Alan Bates. Più che un successo memorabile, fu un impatto traumatico per ambientazione, linguaggio e rabbia. Un radicamento nel presente sociale del paese che farà breccia anche attraverso i detrattori. Silvia Albertazzi ne contestualizza il successo attraverso la decade 1956-1967, ma anche il suo ridimensionamento critico in quella successiva, dove viene sottolineata l’importanza del protagonista Jimmy Porter nel tratteggiare lo sradicamento identitario di un’intera generazione, delusa da una lotta di classe disattesa, se non completamente fallita. Non ha quindi importanza la convenzionalità strutturale della piece di Osborne, quanto la collocazione centrale che favorirà l’apertura verso nuove istanze culturali. L’irruenza di Jimmy Porter rompe l’illusione del mondo consumistico e in qualche modo invita a guardare verso altri orizzonti, quelli che Albertazzi analizza ampiamente attraverso i testi di Stilltoe, Storey, l’adattamento di “This Sporting life” fatto da Lindsay Anderson nel 1963, ma anche fenomeni come la marcia di protesta per il disarmo nucleare organizzata, tra gli altri, dallo stesso John Osborne.

Il terzo capitolo delinea la costituzione e l’eredità di “This is Tomorrow” , la mostra che metteva insieme architetti, pittori e scultori con un collante teorico che trovava fondamento nel rifiuto della “purezza” artistica o del primato di un’arte sull’altra. Senza una vera e propria sintesi teorica, lo spettatore è lasciato libero di stabilire le proprie connessioni, ponendo l’accento comune sulla dimensione situata di tutta l’arte proposta. La Albertazzi ricrea le istanze, la dimensione culturale, le suggestioni, attraverso una puntuale ricostruzione elle 12 sezioni della mostra, con particolare attenzione alla 2 e alla 6 curate dai membri dell’Indipendent Group. Si cerca di individuare tutti gli stimoli che di li a poco avrebbero fatto esplodere quella rivoluzione culturale che sarà codificata dallo sviluppo del pop come stile di vita. Albertazzi confronta le due accezioni di pop, tra gli anni cinquanta e il decennio successivo, cercando di delineare consapevolezze e obiettivi diversi. La qualità situazionista di “This is tomorrow” emerge allora chiaramente come brodo di coltura di tutto quello che verrà dopo; il trionfo del qui e ora, come sottolinea l’autrice, accennando alla parabola estetico-rivoluzionaria di Mary Quant.

L’esplorazione pop della Albertazzi è vastissima e dettagliata e include un’appassionata analisi del ruolo di Pauline Boty nell’onda artistica pop di quegli anni. La Albertazzi rileva quanto le analisi critiche sul lavoro dell’artista pop scarseggino fino al nuovo millennio, e se presenti, come nel lavoro di Paola Colaiacomo e Vittoria Caratozzolo sulla Londra dei Beatles, rasentino la delegittimazione di stampo sessista. La Boty per Albertazzi rivisita con forza e gioia l’immaginario erotico della pop art, da lei sottoposto ad una sovversione vitale, rispetto all’ottica maschile imperante. Ma Albertazzi non si ferma qui ed introduce il lavoro di altre donne: Jann Haworth e le sue soft sculptures, Bridget Riley e il suo contributo alle suggestioni optical dell’arte pop.

In questo contesto, trova spazio anche una disamina dell’incursione pop-art negli artworks dei vinili dell’epoca, aspetto che ci sta molto a cuore. Jann Haworth, Peter Blake, Richard Hamilton, la foto di Art Kane per gli Who dormienti e avvolti in una grande Union Jack e tutti i plagi che ha subito anche in anni recenti. In generale Albertazzi compie una lunga analisi che dimostra quanto l’energia che si respirava fosse quella che tendeva a portare fuori dai musei tutta l’immaginazione visuale, dai poster underground alle copertine dei dischi.

Londra occupa un ruolo fondamentale nel volume, trasversalmente e in modo più specifico nella sezione intitolata “The Swinging City“, dove si raccontano i modi, i toni e le suggestioni di una città anticonvenzionale ed edonista, tra gioventù proletaria e i nuovi stimoli offerti dalla cultura pop. Albertazzi attraversa la metropoli con il cinema, la musica e tutti i segni culturali che già innestano il suo lavoro. Fino ai film di Richard Lester, immagine cinematica della Swinging London e occhio dei Beales.

E sono sempre i Beatles, nelle conclusioni di Albertazzi, che sanciscono il lento svanire di un mondo culturale. Si riferisce alla messa in onda di “Magical Mistery Tour“, il documentario co-diretto da George Harrison, Ringo Starr, John Lennon e Bernard Knowles, trasmesso dalla BBC il giorno di Santo Stefano del 1967. Tra nostalgie provinciali e proletarie e le numerose incursioni lisergiche, c’è spazio per il nonsense che anticipa, sempre secondo Albertazzi, il circus dei Monty Phyton. Il confronto è con il tour fotografico di Tony Ray-Jones che percorre l’Inghilterra a bordo di un furgone, dove la provincia raffigurata è quanto di più lontano dalla vita rutilante della Swinging London e tutto sembra immutabile. Seguendo le suggestioni di Sandbrook in “Swinging Sixties”, dove “Gli anni sessanta si comprendono meglio se sono considerati non come un punto di svolta drammatico, che interrompe il corso della storia […] ma come fase di una lunga evoluzione che risale ad un passato ormai dimenticato” , Albertazzi riconnette la frase di Lawrence Alloway scritta nella prefazione al catalogo di “This is tomorrow”: il domani di ieri, non è l’oggi. Un domani che non è mai arrivato.

Questo è domani – Gioventù, cultura e rabbia nel Regno Unito 1956-1967
Autrice: Silvia Albertazzi
Editore: paginauno
Anno di Edizione: 2020
Pagine: 222
Collana: Saggistica
Formato: 14 x 21 cm
Prezzo Consigliato: 17 euro sul sito dell’editore

Silvia Albertazzi insegna Letteratura dei Paesi di lingua inglese all’Università di Bologna. Tra i suoi lavori: Lo sguardo dell’Altro (2000; 4°rist. 2011); La letteratura postcoloniale (2013); Letteratura e fotografia (2017; 1° rist. 2018). Per Paginauno ha pubblicato Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta (2018)

Fabiola Destrieri
Fabiola Destrieri
Critico cinematografico. Si occupa della relazione tra arte e cinema. Ha collaborato con alcune riviste del territorio milanese e con alcune gallerie d'arte.

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