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Quiet life di Alexandros Avranas: recensione, Venezia 81

L'unica risposta possibile all'asilo negato nella democratica Europa è il silenzio del coma. Una rassegnazione che traduce la violenza concentrazionaria della burocrazia e la distanza dai corpi e dalle loro storie individuali. Alexandros Avranas descrive l'incubo in piena luce di una Svezia non così distante dalla disumanizzazione europea corrente. Visto a Venezia 81 nella sezione Orizzonti

L’interesse di Alexandros Avranas per il fenomeno della sindrome da rassegnazione è probabile che abbia origine dagli scatti di Magnus Wennman pubblicati per il New Yorker nel 2018, dove Djemeta e Ibadeta, due bambine kosovare, vengono ritratte durante uno stato di sonno profondo, mentre si nutrono attraverso un sondino.
È il primo documento visuale relativo alla malattia che colpisce i bambini di famiglie richiedenti asilo e che per ragioni sociali ed economiche difficili da dettagliare in questa sede, ha registrato un incremento specifico in Svezia.
Quiet life si ambienta nel paese scandinavo e si articola intorno alle vicende di una coppia russa, reduce da una mirata e violenta persecuzione politica in patria e approdata in Europa per richiedere asilo insieme a due figlie.

Il cinema geometrico del regista greco, mantiene il rigore distante e gelido del punto di vista, ma esce radicalmente dalla dimensione metaforica dell’immagine che per esempio caratterizzava un film come Miss Violence, sovrapponendo la solarità razionale ed “energetica” della nuova Göteborg, con lo sviluppo di una vera e propria paralisi ipnagogica.

Realista quindi, nel tradurre in termini squisitamente visuali la dimensione etico-politica di una nazione perfettamente organizzata secondo principi di positività del pensiero, che convergono pericolosamente verso la correzione di qualsiasi anomalia e l’espulsione di tutte le eccedenze.
Queste, ove presenti, subiscono una censura immediata e piegano la volontà della famiglia russa verso l’esercizio di un’educazione civica coatta.

Cosa ha causato il coma improvviso della piccola Katja? E cosa spinge Alina a seguire il destino della sorella minore?

Lo scontro tra individuo e sistema sociale nasconde alcune risposte ed evidenzia lo scheletro di un regime, incorporato nei volumi architettonici della città democratica.
Tutto concorre alla costruzione di un incubo kafkiano in pieno sole, dove l’accumulo burocratico tende a creare una distanza incolmabile tra i corpi e le loro storie.

Identificati attraverso un campionario di reazioni emotive inconcepibili, secondo gli standard comunitari svedesi, la coppia viene costretta a mentire sulla base di un’esperienza vissuta.
Le prove che possano testimoniare la violenza subita in patria, sono nascoste nell’improvvisa narcolessia di Katja.

Ma quel disagio emotivo che diventa malattia gravissima, è causato proprio dalle regole statali che negano l’empatia come risorsa fondamentale per stipulare il patto sociale.
Ecco che il cinema della crudeltà di Avranas diventa improvvisamente una forma necessaria per definire l’assenza di umanità all’interno di un sistema sociale che cerca di regolarla al millimetro.
La sequenza dove la coppia viene costretta a mantenere la postura di un sorriso forzato, come esercizio terapeutico di derivazione olistica, sembra collocarsi all’interno di un immaginario parodico, ma in realtà investe di luce accecante la maschera di un dolore negato e violentemente represso.

Non è allora così distante la tortura subita dalla famiglia russa in terra straniera, rispetto alla violenta censura che il padre del nucleo, insegnante, ha subito per mano dei sicari della Federazione.

Avranas costruisce un movimento verticale che spinge i suoi protagonisti dalla superficie al sottosuolo. La luminosa architettura svedese viene improvvisamente sostituita da un appartamento clandestino dove la coppia, con ritrovato ottimismo, cercherà di svegliare dal coma le due bimbe, senza l’intermediazione del sistema ospedaliero locale, regolato da principi esplicitamente concentrazionari.
Non è un caso che ad uno dei funzionari dell’immigrazione venga messo in bocca il leitmotiv della destra scandinava, utilizzato per negare l’esplosione di una patologia concretamente generata dalla morfologia burocratica delle città svedesi: non il coma, ma l’avvelenamento dei propri figli da parte dei richiedenti asilo, come ultima ratio per ottenere cittadinanza.

Questa è di nuovo possibile nella creazione di parentele e connessioni inedite in un regime di semi-clandestinità.
Avranas inverte i rapporti visuali e individua nella sovraesposizione luminosa di Göteborg i confini di un’esperienza sociale pericolosamente vicina alla selettività nazista, mentre nell’ombra possono ricrearsi tutti quei rapporti comunitari di vicinanza, che rivelano attraverso la differenza di corpi, lingue e culture, la possibilità di un mondo nuovo.

Quiet life di Alexandros Avranas (Francia, Germania, Svezia, Grecia, Estonia, Finlandia, 99 min)
Interpreti: Chulpan Khamatova, Grigory Dobrygin, Naomi Lamp, Miroslava Pashutina, Eleni Roussinou
Sceneggiatura: Stavros Pamballis, Alexandros Avranas
Fotografia: Olympia Mytilinaiou
Montaggio: Dounia Sichov
Scenografia: Markku Pätilä
Musica: Tuomas Kantelinen

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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