I primi tesissimi quindici minuti di Quitter La Nuit sono chiusi nello spazio senza uscite dell’abuso.
In medias res e senza conoscere i presupposti, l’abitacolo di un’automobile in corsa guidata da un uomo in evidente stato di alterazione rappresenta già una dimensione coercitiva. A fianco, una donna spaventata finge di parlare telefonicamente con la sorella, mentre sta cercando di comunicare la sua condizione di pericolo ad un numero antiviolenza. La conversazione con l’operatrice, attraverso strategie verbali e gli strumenti di geolocalizzazione, si articola sul crinale dell’impotenza rispetto all’inesorabilità del viaggio notturno. Una sintesi visuale molto potente che elabora la fragile relazione tra evento e intervento, solo in alcuni casi capace di spezzare il filo rosso della violenza.
Anche in questo, Delphine Girard evidenzia un aspetto su cui si fonda tutta l’architettura del suo film, determinata dalla sconnessione tra testimonianza e onere della prova. L’unica che possa avere un valore documentale sarà la registrazione audio della telefonata, nella progressiva alternanza di certezze probatorie e dubbi interpretativi. Più della sfiducia nel sistema giudiziario, la regista canadese evidenzia l’insufficienza dei mezzi e delle soluzioni penali per contrastare la violenza di genere, spostando l’asse percettivo sulla connessione emotiva tra vittima, colpevole e operatrice.
Quest’ultima occupa lo spazio di mediazione di uno spettatore ideale, nel tentativo di decodifica delle informazioni, ma assume una posizione di vicinanza del tutto aliena rispetto alla freddezza formale dei media e al surplus di morbosità che generano. L’accoglienza di una testimonianza porta allora con se tutti i segni e le mutazioni profonde di una società femminile che prende forma fuori dal solco di quella patriarcale e di tutta la comunicazione che ne alimenta l’esercizio violento.
A partire da un cortometraggio intitolato Une sœur realizzato tre anni fa e che in qualche modo viene nuovamente concentrato nell’incipit di Quitter la Nuit, Girard va oltre l’inesorabilità claustrofobica dell’evento e cerca nei volti dei tre personaggi principali origini e motivazioni. Niente di esplicitamente rivelatorio, ma un’immersione onesta nel loro habitat, nelle occorrenze della vita quotidiana, alla ricerca di assonanze e dissonanze che aprono altre potenzialità interpretative rispetto alla drammaturgia spietata che produce vittime e mostri.
Nel volto inquieto della “non collaborativa” Aly, attraverso la vibrante interpretazione di Selma Alaoui, Girard trova la via di un cinema che assegna un valore relativo alla dimensione verbale. Di questa coglie le incertezze, i difetti, l’improvviso incepparsi, l’impossibilità di stabilire in termini descrittivi l’esperienza della violenza subita.
Dall’altro lato, quella agita da Dary ha caratteristiche simili nell’incapacità di riconoscere la spinta predatoria che lo anima. Solo i dialoghi difficili con la madre aprono una finestra sulla linea storica della violenza famigliare, ma è una genesi che rimane sullo sfondo, come tratto indicibile e irriconoscibile, specchio di una paternità tossica che si fa fatica a chiamare con il suo vero nome.
Lontana anni luce dal sociologismo d’accatto degli ipermedia, Girard dimostra una fede sempre più rara nel cinema come mezzo che consente di scardinare la centralità stessa dello schermo.
Persino i flashback, radicati nello spazio mnestico, più di esercitare una funzione esplicativa, rivelano il crinale sempre più sottile tra fragilità e istinto, coercizione e scelta, desiderio e rifiuto.
Incertezze entro le quali può manifestarsi una gamma di sentimenti amplissimi e che non si accordano mai con la prassi degli interrogatori, la cui dinamica sfiora pericolosamente la narrativa del pregiudizio.
La verità non è allora quella processuale, ma l’energia emotiva che passa dall’esperienza di Aly alla presenza dislocata di Anna sul luogo dell’abuso. Lo sguardo dell’operatrice, in quel caso assente, si attiva nel riconoscimento di un dolore vissuto che non ha bisogno di prove documentali. Un vero e proprio riverbero che stratifica nel volto di Veerle Baetens i segni e le conseguenze della violenza. Tanta, quanto quella probabilmente assorbita in un ruolo professionale che concentra mille risonanze possibili.
C’è un tentativo, esplicito, di costruire progressivamente l’immagine di un mondo matrilineare dove Girard ci conduce per mano, elaborando anche alcune simmetrie evidenti, come quella che contrappone il gesto brutale della coercizione violenta alla relazione ancora opaca con l’ex marito di Aly. Sulla bilancia due tentativi di avvicinamento all’intimità di una persona, dove il desiderio può prendere una direzione opposta. Il primo di polarità negativa, il secondo sotto il segno del dialogo.
Una densità che Quitter La Nuit, opera prima essenziale e rigorosa, stratifica con la forza potenziale del gesto. Ignorarne la provenienza, quando distrugge la vita altrui, non è più una risposta accettabile.
Occorre allora rifondare il linguaggio e le forme del desiderio, lasciandosi la notte alle spalle.
Quitter la nuit di Delphine Girard (Belgio, Canada, Francia)
Interpreti: Selma Alaoui (Aly), Guillaume Duhesme (Dary), Veerle Baetens (Anna), Anne Dorval (Laurence), Adèle Wismes (Lulu), Gringe (Pierre), Alba Casado (Sarah)
Fotografia: Juliette Van Dormael
Montaggio: Damien Keyeux
Musica: Ben Shemie