Nell’evoluzione della demenza senile, mente e corpo sono inestricabilmente connessi. L’autunno del cervello è strettamente legato al declino delle funzioni fisiche, con una gerarchia ancora difficile da stabilire, tanto da convincere alcuni ricercatori che l’applicazione di un metodo specifico di allenamento fisico possa contribuire a limitare l’insorgenza dell’Alzheimer in tarda età, insieme al contenimento di altri fattori a rischio. Nell’esperienza comune, la percezione esterna dell’altrui oblio è un trauma capace di riconfigurare le facoltà fisico-affettive, mettendone a rischio limiti e confini. Natalie Erika James racconta proprio questo, quando in alcune interviste indica come cellula originaria di “Relic“, la recente visita all’anziana nonna, residente in una vecchia casa giapponese. Quello spazio alieno, capace di far emergere sopite paure infantili, si salda con la perdita delle funzioni cognitive esperita dall’anziana signora. La mente, il corpo e la casa, sono tre elementi centrali nel primo lungometraggio della regista apolide australiana, atipico film horror che cerca di trasporre l’esperienza dell’Alzheimer in una dimensione spaziale, ottica e dolorosamente fisica.
Sarah Polley, al suo esordio dietro la macchina da presa, si era concentrata sull’erosione dell’immagine per raccontare la relazione di Julie Christie con la memoria, ribaltando quella tra fuori campo e inquadratura insieme al direttore della fotografia Luc Montpellier. In “Away from her”, l’occhio spinto al limite dell’ipovisione acquisiva la facoltà di riscrivere lo spazio cancellato dall’Alzheimer, attraverso la perdita del regime scopico e di tutte le convenzioni che lo giustificavano.
Non sono distanti le scelte della James nel concepire lo spazio casalingo come luogo identitario per eccellenza, destinato alla decadenza. La casa isolata nel bosco dove vive Edna (Robyn Nevin) sembra una contrazione della maison Usher e quando la figlia Kay (Emily Mortimer) e la nipote Sam (Bella Heathcote) entrano per cercare l’anziana signora da cui non hanno notizie, lo sguardo della James si ferma sugli oggetti corrotti dall’azione del tempo, come nella dettagliata descrizione ambientale che introduce il racconto di Edgar Allan Poe.
Le micotossine della muffa proliferano su tutto ciò che muore all’esterno, evidenziando la natura organica dell’abitazione, mentre la sopravvivenza del logos viene tracciata da una serie di post-it disseminati lungo le stanze, la cui funzione sembra quella di dare significato ad oggetti ed azioni, proprio quando si stanno perdendo tutte le correlazioni sinaptiche.
L’improvvisa ricomparsa di Edna è quella di un ritornante, una creatura persa ai confini del tempo, nuovamente protetta dal nido, grande proiezione del desiderio. Trama intessuta di rapporti, come scriverebbe Calvino, il luogo di una storia vissuta viene sottoposto dalla James ad uno spietato e progressivo sgretolamento, lo stesso che accompagna la fine del sogno abitativo, inteso come costruzione di un processo identitario. Lo spazio che Edna sentiva come significativo, non è più localizzabile e insieme al suo corpo, perde tutte le funzioni comuni fino a diventare una minaccia per chi non lo riconosce più.
“Relic” opera un doppio processo, prima di tutto legandosi ad un cinema di matrice fortemente fisica, per avvicinarsi alla ricerca tra organico e mentale di Nacho Cerdà. In secondo luogo, sfruttando l’osservazione fenomenologica di spazi e corpi come un rovesciamento dell’interno nell’esterno. L’esperienza di Kay e Sam è quella di due generazioni a confronto, nella complessa relazione con le proprie radici, tra distacco e riconoscimento. Osservare la perdita irreversibile della radice matrilineare, provoca un movimento tellurico che riconfigura le fondamenta della propria identità. Come Edna, la casa non è più riconoscibile perché trasfigurata dalla prevalenza dell’oblio sulle dinamiche del sentimento, sospese tra raziocinio e istinto.
Il grado zero della dimenticanza coincide con il totale annullamento dell’io ed è sorprendente che la James riesca a tradurlo come vero e proprio collasso di tutte le coordinate semiotiche, aprendosi alle possibilità di una mistica terribile e disturbante.
La pelle allora diventa l’ultima soglia dell’esistenza. Per superare il rifiuto della marcescenza dei tessuti, fine estremo di quell’istituzione del senso rappresentata dal corpo, l’unico gesto ancora possibile è accogliere l’alterità della morte, trasformazione assoluta di quella nudità che ancora si perde e confonde tra altre superfici.
Togliere la pelle, squamare il corpo è il gesto estremo di Edna, malata di Alzheimer, per liberarsi dalle escrescenze marcite del corpo, ma anche quello di altre figure sul bordo, come le donne disfunzionali ritratte da Marina De Van, Julia Ducournau, Moara Passoni.
“Relic” osserva in modo preciso il nostro rifiuto della morte attraverso la testimonianza annichilita di una disgregazione individuale e sociale. La casa che diventa un labirinto, le stanze che perdono consistenza volumetrica, le pareti infestate dalla muffa, il corpo ridotto ad una carcassa.
Eppure, in quello che sembra uno sguardo funereo, capace di mandare in frantumi trascendenza e materialismo, facendoli collidere l’una contro l’altro, si accende una luce nera, nocciolo duro da abbracciare incondizionatamente per superare il rifiuto: non-corpo, né anima.