Viene dal documentario Delphine Deloget e per il suo primo film di finzione scritto a sei mani insieme a Olivier Demangel e Camille Fontaine non abbandona quel piglio immersivo che aveva caratterizzato Voyage en Barbarie, sulle tracce degli immigrati eritrei nel deserto del Sinai. Il contesto è completamente diverso e si avvicina alla vita proletaria nella città portuale di Brest, seguendo da vicino Sylvie, madre del piccolo Sofiane e dell’adolescente Jean-Jacques. Socia di un pub, unica fonte di sostentamento, è costretta ad orari inumani, cercando in ogni modo di non far mancare niente ai figli.
Parte di un nucleo disfunzionale che ricorda i racconti di formazione descritti da Sylvie Verheyde, la donna rivendica ostinatamente un’eccentricità che mette sempre al centro l’intensità relazionale, con i figli, gli amici, il fratello borderline, la sorella oppressa dal marito. Una vita sul bordo pronta ad esplodere in mille pezzi quando Sofiane rimane vittima di un incidente domestico, incendiando mezza cucina.
È solo l’inizio di un calvario che rivelerà l’impossibilità di sbagliare all’interno di una società falsamente sorretta dai principi del welfare, ma che impedisce ai singoli di recuperare terreno rispetto ad un’interpretazione penale della realtà. Quando i servizi sociali le strapperanno il figlio, valutando insufficiente e deficitario il suo ruolo di madre, lo scontro con il determinismo delle istituzioni sarà impari.
Al volto solare e inquieto di Virginie Efira la Deloget affida tutta la forza di un cinema che sostituisce l’invettiva ideologica, con un’adesione totale a quei confini corporei che caratterizzano oppressione e libertà. Tutte le volte che quella d’amare viene negata con una lettura securitaria e cautelativa della realtà, è il corpo a definire il peso della coercizione. Questo si verifica soprattutto nella relazione primaria tra Sofiane e la madre, caricando il potenziale aggressivo del bambino ogni volta che lo spazio d’interazione naturale viene ridotto e sostituito con i surrogati della psicoterapia di Stato.
Lo sguardo allora si avvicina agli effetti di questo sradicamento, mostrandoci i gesti esplosivi di Sofiane sospesi tra abbraccio e violenza, mentre tormenta i capelli della madre, oppure cerca di forzare uno spaziotempo che non può comprendere, distruggendo il “set” allestito dai funzionari statali per il teatro degli incontri regolati.
Se il film è tutto bilanciato a partire dalla vicinanza e dalla distanza fisica tra soggetti, ciò che rende mutevole ed emozionale la posizione dello spettatore è la forza dirompente di Sylvie e la sua incapacità di accettare l’organizzazione esterna del suo spazio privato.
Quando Deloget ci mostra il limite estremo tra disfunzione e regola, illudendoci per un attimo che la seconda possa investire di senso la prima, Sylvie affronta di petto la narrazione di regime e trapassa gli spazi deputati. Ecco che l’arena giudiziaria, il confronto con l’assistente sociale, l’ottica di negoziazione dell’avvocatura, le risorse dell’assistenzialismo per risolvere quella stessa precarietà causata dallo stato, diventano maschere che Sylvie non è in grado di indossare per più di un giorno.
Entra allora a gamba tesa nella cornice rappresentativa, insulta i giudici, vomita rabbia nel gruppo di auto-aiuto rilevandone l’impasse entro cui sono relegati, colpisce l’assistente sociale con una violenta testata.
Ed è straordinaria la naturalezza con cui Deloget ci mostra gli effetti di questa vitale incapacità di seguire le regole, per sovvertire i principi narrativi sui quali il potere elabora il concetto di pena, assegnando buone e cattive condotte, definendo i personaggi come madri pessime e figli caratteriali.
Senza attivare uno sguardo giudicante, Rien à perdre cerca nei corpi e nei gesti le motivazioni più profonde. I primi sono irriducibili e si manifestano come urgente necessità di liberarsi dalla morsa concentrazionaria del lavoro e della pressione istituzionale sull’unicità dello spazio personale.
La figura dell’assistente sociale incarna la resistenza di un modello attraverso l’indefinitezza dei tratti, l’impenetrabilità del volto, l’assenza di mobilità nelle espressioni, l’incapacità di esprimere in termini fisici l’empatia, anche negli slanci apparentemente più generosi. Sono due polarità opposte che descrivono e abitano lo spazio in modo divergente. Ecco perché quell’improvvisa testata da parte di Sylvie sfonda letteralmente lo schermo, buca le regole rappresentative, costringe a visualizzare il sangue e il dolore come un improvviso terremoto che cambia le nostre stesse illusioni percettive.
Lo stato di diritto francese non è diverso dalle regole concepite da alcuni regimi per contenere le eccedenze. Il volto e il corpo di Sylvie eccedono qualsiasi spazio. Quello domestico, perché vissuto nell’immediatezza dell’istante, anche a rischio che si disintegri. La condivisione sociale con una generosità promiscua ed apolide. Le istituzioni, come un recinto da sfondare.
Rien à perdre è un film senza speranza che riesce a ritrovarla sul limite, ovvero in quello spazio di confine tra diritto e libertà che può essere attraversato solo con un gesto profondamente anarchico: uno strappo al regime di credenza del racconto sociale.
Rien à perdre di Delphine Deloget (Francia, 2023 – 112 min)
Sceneggiatura: Delphine Deloget, Olivier Demangel, Camille Fontaine
Fotografia: Guillaume Schiffman
Musica: Astrid Gomez-Montoya
Montaggio: Emeline Aldeguer, Beatrice Herminie
Interpreti: Virginie Efira, Felix Lefebvre, Aireh Worthalter, India Hair, Mathieu Demy, Alexis Tonetti, Andrea Brusque, Oussama Kheddam, Audrey Mikondo, Jean-luc Vincent, Caroline Gay, Anne Steffens, Cedric Vieira, Martin Bouligand, Gaetan Peau