Sembra quasi difficile credere che ci sia il concepimento di una sceneggiatura dietro questo Ritratto di famiglia con tempesta, nuova pellicola diretta da Hirokazu Kore’eda, un regista giapponese ormai ben noto al pubblico occidentale grazie alla sua frequente partecipazione ai grandi festival di cinema europei (iniziando con la Biennale di Venezia nel 1995 dove presentò il suo primo lungometraggio, il glaciale dramma familiare Maborosi).
L’illusione di essere di fronte ad un racconto non scritto, semmai incontrato, quasi per caso, dall’occhio della cinepresa, è peculiare di questo autore. Il cinema di Kore’eda è in grado di prendere delicatamente lo spettatore per mano e accompagnarlo in quadri di quotidianità e intimità, ripresi con una naturalezza così spiazzante da far quasi suscitare in chi osserva una sensazione di imbarazzo, perché si crea l’impressione di entrare in casa di qualcuno senza essere visti. Questa è un po’ la magia del cinema, ma vale in modo speciale per registi come Kore’eda, definito l’erede contemporaneo del maestro Ozu, l’autore diventato celebre proprio grazie alle sue semplici ma toccanti storie familiari, integrate con sapiente attenzione nel contesto sociale del Giappone.
È facile dunque comprendere l’associazione, ormai ricordata quasi doverosamente con l’uscita di ogni nuovo film, con Kore’eda, regista che ha dedicato l’intera sua filmografia a rappresentazioni del nucleo familiare nella società giapponese, illustrandone diverse declinazioni. Per lo più, raccontandone i limiti, gli scheletri nell’armadio ben nascosti ma messi a nudo dalla sua cinepresa con una spontaneità del racconto unica a questo regista e pochi altri (lo stile, se togliamo un certo gusto per l’ironia del grottesco, è molto vicino anche a quello di Mike Leigh). Proprio a motivo di ciò si ha l’illusione dell’assenza di un soggetto cinematografico. Sembra piuttosto di assistere alla ripresa privata della quotidianità di individui qualunque.
La trama di quest’ultimo film, come spesso accade nei film di Kore’eda, è in effetti secondaria: non accade nulla, se non lo scorrere della vita, con le sue oscillazioni causate da ostacoli, rivelazioni, magari fortune inaspettate. In Ritratto di famiglia con tempesta –titolo italiano che non ha nulla a che vedere con quello nipponico, traducibile come “ancora più profondo del mare”, frase tratta da un brano pop giapponese– abbiamo protagonista, ancora una volta, una famiglia spezzata da un conflitto interno, un divorzio in questo caso. Protagonista è Ryota, scrittore che ha iniziato la carriera con un grande successo che lo hai poi abbandonato, lasciandolo nel giro del gioco, tra scommesse alle corse e gratta-e-vinci, al quale Ryota accosta un’improvvisata carriera come investigatore privato. Ma Ryota è anche padre di Shingo, avuto con la ex-moglie Kyoko, donna che ha deciso di lasciarlo perché incapace di vedere in lui, uomo vittima del gioco e condannato all’insuccesso, la figura paterna ideale per il figlio. Kyoko ha sostituito questo letterato con un uomo apparentemente disinteressato alla cultura, ma benestante, col quale forse vorrebbe costruire una famiglia.
Non si può certo dire che Koe’eda ami concludere i suoi drammi familiari nella riconciliazione delle parti, con poche eccezioni (uno spiraglio positivo si osserva in Father and son ad esempio). Il film è girato durante la stagione dei monsoni, anche per questo il ritratto di famiglia attraversa la tempesta, metaforica e letterale assieme, ma ogni conflitto resta irrisolto: in questo film, ancora di più che non nei precedenti lavori, domina nella vita dei personaggi un senso di immobilità, di stasi che è assieme emotiva e sociale, nessuno di loo ha la forza di cambiare le cose all’interno del rapporto di coppia.
Ma il cinema di Kore’eda è anche costante indagine, con note di autocritica, dello scontro tra tradizione e contemporaneità, nello specifico del peculiare contesto sociale giapponese. Passato e presente sono, per necessità dei protagonisti, accostati; spesso nei racconti del regista l’uno funge da rifugio e risorsa per l’altro, in un rapporto/scontro che si rivela frequentemente al centro dell’attenzione, nelle varie forme attraverso le quali il regista sceglie di rappresentarlo sullo schermo.
In Little sister ad esempio il passato funge da alcova simbolo di sicurezza contro le incertezze di un presente caratterizzato da instabilità: è il succo di prugne prodotto dalla nonna delle giovani donne protagoniste, nascosto gelosamente nelle fondamenta della loro casa e infuso quasi della stessa funzione stabilizzatrice.
In Ritratto di famiglia con tempesta il passato è incarnato invece nella figura dell’anziana madre di Ryota, Yoshiko, donna dotata di una saggezza spontanea che prende forma nei dialoghi con il figlio e con la sua ex-moglie, con la quale la vivace signora (interpretata da una bravissima Kirin Kiki, attrice che ha già precedentemente lavorato con Koreeda) tenta una commovente opera di mediazione, al fine di riunificare la coppia.
Il tentativo, un confronto giocato più sugli sguardi e i gesti delle attrici che non sull’espressione verbale, ha luogo durante una singola notte, mentre infuria la tempesta; non avrà infine successo, ma la saggia Yoshiko realizza di aver detto “una cosa profonda” (tanto da segnarsela come appunto) quando spiega al figlio che non si può trovare la felicità, se non si rinuncia a qualcosa.
La conclusione sembrerebbe quindi segnare l’ennesima sconfitta del passato e degli individui che vi si aggrappano disperatamente, come le quattro sorelle di Little sister, oppure i familiari in lutto di Distance e come Ryota. Ma quello del regista non è nero cinismo o sfiducia nell’uomo contemporaneo. Non all’apparenza almeno; quello di Kore’eda si presenta piuttosto come una sorta di sereno realismo, lucido nel suo essere cosciente della crisi della struttura tradizionale della società nipponica e, nello specifico, di una concezione conservatrice del nucleo familiare, perno tematico attorno al quale ruota l’intera sua filmografia.
Nei ritratti cinematografici di Kore’eda, drammi e spiragli di positività trovano il loro spazio all’interno di una cornice privata, il più delle volte collocata negli interni dell’accogliente ambiente casalingo. Quella del regista è dunque una ricetta semplice, anche se bisogna ammettere che film come questo siano vere perle rare all’interno della produzione contemporanea e sembrano evidentemente più alla portata della sensibilità degli autori orientali.
Tanta è la difficoltà nel mantenere in piedi una sceneggiatura basata su dialoghi sparsi, con i quali i protagonisti commentano per lo più situazioni quotidiane, quali possono essere una discussione con i colleghi di lavoro o una sosta al negozio di scarpe dietro l’angolo. Ma tra una battuta e l’altra, i personaggi mettono a nudo il loro conflitto interiore e le loro eventuali speranze per il futuro. È un cinema che, è vero, si ripete nella sua forma e nelle sue tematiche ma che, come tra l’altro dimostra l’apprezzamento costante in sede di festival, continua a suscitare emozioni, attraverso quei bellissimi bozzetti di vita che l’occhio di Kore’eda sa raccontare con spiazzante umanità.