L’attenzione critica nei confronti di Masanori Tominaga arriva a partire da Vacunas, il secondo cortometraggio del regista giapponese, realizzato nel 2002 e vincitore del premio principale al festival dei cortometraggi di Mito. Da questo momento, Tominaga non ha mai abbandonato la forma breve, portata avanti fino ad anni recenti, ma si è contemporaneamente cimentato nel lungometraggio a partire dal 2006 con il primo film sulla lunga distanza, intitolato The Pavillion Salamandre e interpretato da attori del calibro di Joe Odagiri, Shota Sometani e Riisa Naka.
Tra i suoi film, quello che ha ottenuto la maggiore considerazione critica è sicuramente The Echo of Astro Boy’s Footsteps, documentario dedicato a Matsuo Ohno, compositore elettroacustico e talentuoso sound designer, conosciuto sopratutto per il lavoro sui suoni realizzato per la serie Astro Boy trasmessa in Giappone tra il 1963 e il 1966. Amato da James Marsh e citato da Jasper Sharp della rivista Midnight Eye come il miglior film giapponese del 2012, quello dedicato a Matsuo Ohno rimane a tutt’oggi il film più rilevante tra quelli realizzati da Tominaga.
Quest’ultimo Rolling rappresenta il ritorno al cinema di finzione, dopo Vengeance Can Wait del 2010, un periodo di cinque anni dove Tominaga, oltre al già citato documentario su Ohno, ne ha realizzato un altro e una serie di tentativi di sperimentazione sui nuovi formati, come Nôkon kiddo: Bokura no gêmushi, mini serie in 12 episodi realizzata per la diffusione mobile.
Ambientato nella prefettura di Ibaraki, il cui capoluogo è proprio Mito, sede del festival che per primo ha sponsorizzato i lavori di Tominaga, Rolling è un racconto di provincia che ottimizza lo stile dei precedenti film del regista giapponese, sempre in precario equilibrio tra nonsense estremo e un lavoro sui personaggi teso ad esasperare gli aspetti più compulsivi e bizzarri della loro personalità.
In questo senso i film di Tominaga si sviluppano intorno a figure borderline, dove il limite risulta quasi sempre quello tra malinconia e delirio, con toni che ricordano le commedie di Satoshi Kon, senza la stessa attenzione per i dettagli, il set e la causalità del meccanismo.
Gondo (Yohta Kawase), insegnante molto amato nella prefettura, torna dopo dieci anni di allontanamento forzato a Tokyo con la sua nuova giovane fidanzata nei pressi di Mito. I fatti che avevano condotto alla sua espulsione sono legati ad una video camera installata nello spogliatoio femminile della scuola, attraverso la quale il maestro registrava piccoli filmati proibiti. Per evitare lo scherno di un gruppo di studenti che lo ha riconosciuto, accidentalmente si rifugia nei pressi di una fabbrica di fazzoletti dove lavora Kanichi (Takahiro Miura), uno dei suoi studenti preferiti. Costui si accollerà la responsabilità di proteggerlo, impiegandolo nella fabbrica ma allo stesso tempo farà di tutto per sedurre la giovane Mihari (Erisa Yanagi), fidanzata dell’insegnante.
Tominaga evidenzia, sin dall’inizio, un dettaglio apparentemente insignificante, per innescare una deriva crescente; nei primi minuti del film è per esempio il piede nudo e ferito di Mihari, sottoposto a stress durante la corsa per fuggire dagli ex studenti. Quella escoriazione sarà l’occasione erotica affinchè Kanichi possa stabilire un contatto con la donna, e successivamente un elemento ricorrente durante la loro relazione intima.
Allo stesso tempo, il vecchio video filmato dalla videocamera nascosta dal professore guardone, una volta riesumato dagli amici di Kanichi, causerà l’amplificazione di quello stesso abuso. La ragazza filmata in un amplesso lesbo, diventerà specchio di un’attitudine erotica passiva e occasione per ricattare Akemi (Juri Ihata), protagonista della performance, e adesso testimonial di una campagna pubblicitaria legata alla promozione dei pannelli solari e rappresentata da un’agenzia.
Lo schema si ripete tutte le volte, in una definizione dei caratteri maschili attraverso le loro peggiori ossessioni feticistiche (il piede, la visione collettiva del video) e di quelli femminili completamente spinti al margine, aspetto che Tominaga evidenzia portando alle estreme conseguenze il rapporto tra gesto, corpo e oggetti. Tra tutte, la sequenza più delirante, quando uno degli ex compagni di Kanichi, saltati completamente i piani per ottenere una consistente ricompensa dall’agenzia di Akemi, minaccia il giovane con un trapano a percussione. La sequenza è dilatata all’estremo: mentre Kanichi rimane sempre a metà tra lo stupore e la fuga, il compagno lo segue con il trapano, e un terzo trascina con se un pesantissimo generatore di corrente, aggiungendo prolunghe su prolunghe per consentirgli di seguire Kanichi fin sul tetto di un palazzo. È una sequenza totalmente slapstick e contribuisce, insieme ad altre, a conferire quel senso di squilibrio tra ambiente e personaggi, quasi che i secondi siano diretta emanazione dell’eccentricità suburbana.
Tominaga gira a bassissimo budget, e non a caso coinvolge un attore come Yohta Kawase, specializzato in produzioni televisive e produzioni “pink”. Kawase non è solo il propellente narrativo dell’intero film, ma anche la voce narrante fino alla delirante conclusione che lo vede “trasmigrare” in un’altra dimensione animale, rileggendo così la soggettiva che fa da collante all’intero film come quella di un racconto osservato dal punto di vista di un “morto”.
Tominaga è sicuramente un autore interessante, ancora relegato in un lungo apprendistato sperimentale, a causa degli investimenti legati ai suoi film e conseguentemente al sistema distributivo ultra-indipendente in cui sono costretti a girare.
Come nelle precedenti opere di finzione, l’amore che Tominaga ha per la musica torna anche in questo caso attraverso la splendida colonna sonora del pianista Takuma Watanabe, già con il regista giapponese ai tempi di Konna Otona no Onna no Ko (2007) ed eccellente compositore tra Jazz, elettronica e musica elettroacustica.
Watanabe ha collaborato, tra gli altri anche con David Sylvian per The World Is Every Thing, il brano incluso nella compilation Sleepwalkers e a vario titolo con John McEntire (Tortoise), Jonas Mekas, Taylor Mead.
Per Rolling ha composto uno dei suoi lavori più intensi dopo il recente e bellissimo Ansiktet, dove al suo consueto approccio “concreto” ai suoni, si aggiungono quelli della tradizione, della musica industriale e di una strana “wilderness” (titolo dell’opening track) ancestrale che ricorda la fusione tra Jazz e natura, musica tradizionale e tribalismi, che era già nelle colonne sonore del grande Toru Takemitsu.