Già parte del collettivo Kourtrajmé, Saïd Belktibia rilancia lo stesso spirito belligerante che anima la vita esplosiva delle banlieue nel cinema francese, con uno sguardo che in parte si avvicina alle marginalità coreografate di Ladj Ly, qui in veste di produttore.
Spinge quindi il pedale sull’azione estremizzata e la fuga continua dagli ostacoli dello spazio urbano, motore principale di una flanerie claustrofobica e negativa, per mettere insieme una riflessione stratificata che include il ruolo dei social media nella formazione della collettività, l’ancoraggio al sentimento religioso come collante per l’identità linguistica e culturale degli immigrati, ma anche l’infrazione a quelle forme di identificazione rituale che non lasciano alcun margine al punto di vista delle donne.
Belktibia sceglie non a caso un’interprete come Golshifteh Farahani, iraniana stanziata a Parigi, artista apolide, militante attiva e persona non grata per il regime di Teheran, a cui affida un personaggio furente, in lotta e in continua fuga dall’organizzazione sociale dello spazio urbano.
Avvolta da un’aura misteriosa, Nour occupa quello spazio non riconciliato tra lo sfruttamento della superstizione a fini alimentari e l’eresia come necessità di definizione identitaria. Il suo è un ruolo “clandestino” sia per le regole della società che la accoglie, ma anche per la sua comunità di riferimento.
L’osservazione di una periferia urbana aggrappata a tutte quelle dimensioni del rito apparentemente scomparse dai complessi urbani occidentali, mantiene un’ambiguità vitale che alternativamente può significare oppressione o al contrario, liberazione da un canone imposto.
La stregoneria occupa l’introduzione del film, attraverso una condensazione mediale di contributi che sembra evidenziare due prospettive. La prima è quella della magia e delle pratiche divinatorie sostituite alla religione riconosciuta, nelle forme estorsive della truffa o in quelle auto-allucinatorie della guarigione. La seconda si riferisce alla stregoneria femminile come energia sovversiva che arriva fino alla diffusione virale su web.
Nour, che contrabbanda rettili, rane velonose, insetti ed un’intera fauna proibita, fornisce la materia prima agli sciamani del nuovo millennio e lancia un’app per smartphone capace di mettere in comunicazione i marabutti della città con chi richiede un servizio di guarigione. In questo transito incerto e polisemico, la rete plasma uno spazio inedito dove sia possibile riscattarsi, socialmente ed economicamente, ma allo stesso tempo innesca tutte quelle distorsioni e quei fraintendimenti che fanno parte dell’impianto comunicativo. Belktibia recupera in parte un discorso alla base di Ghettotube, suo precedente cortometraggio dedicato alla relazione tra produzione e ricezione di fake news.
L’apparente cinismo commerciale della donna, sembra originato dalle stesse esigenze di Sofiane, il protagonista del corto, per rivelarsi come combattivo talento, impiegato per la sopravvivenza quotidiana, necessario per mantenere il figlio, ma soprattutto per acquisire uno status indipendente dal dominio maschile della comunità islamica.
Senza costruire una simmetria rigida, il regista francese mostra una malattia dello sguardo che dalla rete invade i luoghi dell’esperienza collettiva e comunitaria e sostituisce la paura con la capacità di conoscere.
Persino Nour, annichilita dalle violenze subite e in fuga con il figlio a bordo di un mezzo pubblico, può immaginare un pericolo imminente quando non c’è alcuna ragione per farlo, semplicemente osservando gli sguardi, i vestiti, la barba e l’aspetto di due nordafricani, ovvero tutti i codici e i segni apparenti che definiscono e identificano in termini pregiudiziali una comunità rispetto ad un’altra.
Mentre la dimensione fantastica del film si delinea nel contrasto tra la morfologia urbana e questo straordinario rettilario che a un certo punto esonda dallo spazio secluso dell’illegalità, l’orrore si manifesta a partire dai continui assalti violenti che la donna subisce, fin dall’inizio del film quando l’ex marito schianta volutamente la sua macchina contro quella di Nour, costringendola a fermarsi.
Non sono le pozioni, le fatture, le pratiche placebo a minacciare la comunità, ma la continua e incessante frattura dello spazio di convivenza, investito dall’irrazionalità della violenza che identifica nella figura femminile un potere distruttivo, capace di minare la coesione sociale.
La caccia alla strega, con quella violenza estrema che non risparmia il corpo, martoriato da calci, pugni, e una cieca necessità di soppressione, potrebbe essere fuori dalla Francia, per le strade delle città iraniane dove operano le milizie della polizia morale, oppure in qualsiasi fenomenologia dei processi insediativi che caratterizza alcune enclavi etniche dove le donne possono essere punite, escluse o addirittura uccise per scelte considerate eccedenti.
Saïd Belktibia mostra allora un’evasione continua da parte di Nour attraverso gli ostacoli della città. Spazi dove regna il degrado, l’esclusione e l’emarginazione, bassifondi infernali immersi nell’oscurità notturna fotografata da Benoit Soler, che a un certo punto si contrappongono alle cliniche apparentemente hi-tech, investite da una luce irreale, dove vengono mantenute forme di ritualità violente e oppressive.
Esistono davvero i centri dove si praticano i Ruqyah, trattamenti di guarigione esercitati attraverso la preghiera e l’allestimento di esorcismi violenti e coercitivi.
Questo spazio dove il figlio di Nour viene torturato a fini curativi, sembra ricalcare l’accanimento scagliato sui corpi dei dissidenti, una prassi di “purificazione” contro tutto ciò che viene considerato immondo, a partire dall’autodeterminazione individuale.
E gli schizofrenici, gli eretici, le streghe, per riprendere una bella definizione di Norman O. Brown, vanno oltre i principi di realtà, superando i confini stabiliti da qualsiasi definizione.
Nour rovescia la conformità del rito, si appropria degli strumenti e ne riformula la valenza. Con un atto performativo comune a quel cinema Horror che sfrutta segni e oggetti come vettore politico, afferra lo strumento per esercitare la coppettazione e lo trasforma in un’arma per far esplodere il bulbo oculare dell’esorcista. L’accecamento come rivolta contro l’onniscienza politica e religiosa.
Fuori dalla cornice di un Islam immaginato dagli uomini, non importa dove questo abbia luogo, c’è solo l’orizzonte possibile del mare, movimento migratorio in attesa di una terra d’approdo.
Finalmente lontani dalle forze irrazionali che scendono a patti con il potere.
Hood Witch di Saïd Belktibia (Roqya, Francia 2024 – 95 min)
Interpreti: Golshifteh Farahani, Amine Zariouhi, Jérémy Ferrari, Denis Lavant, Issaka Sawadogo
Fotografia: Benoit Soler
Sceneggiatura: Saïd Belktibia, Louis Penicaut
Montaggio: Nicolas Larrouquere, Benjamin Weill
Scenografia: Arnaud Roth
Musica: Flemming Nordkrog
Produttore: Ladj Ly
Produzione: Iconoclast Films, Lyly Films, France 2 Cinéma
Distributori: The Jokers