Home covercinema Roshmia di Salim Abu Jabal – Middle East Now! 2016

Roshmia di Salim Abu Jabal – Middle East Now! 2016

Nella valle di Roshmia in provincia di Haifa, al confine orientale della città, già dal 1980 due mega progetti avevano previsto la nascita di un centro commerciale, il Grand Canyon e le gallerie Carmel, grandi opere destinate a modificare drasticamente la topografia della valle.

Quando il comune di Haifa decide che bisogna costruire anche una strada che colleghi il Monte Carmelo al Mediterraneo, per la baracca dove Yousef e Amna vivono dal 1956 è il colpo di grazia. La vecchia bicocca sorge in mezzo al tracciato, assurdo che due vecchi palestinesi si mettano di traverso con le loro fisime, dunque dev’essere spazzata via senza tanti complimenti.

Viene offerto un indennizzo, una sistemazione in città, una casa con l’acqua e l’elettricità che non hanno mai avuto, tutto perfetto, ma i due vecchi non vogliono andarsene. La loro, in particolare quella dell’uomo, è una resistenza tenace, perdente in partenza, è la lotta del debole destinato a soccombere di fronte alla forza, ma è una lotta che ha colpito profondamente Salim Abu Jabal, poliedrico scrittore, critico, produttore e giornalista siriano residente ad Haifa. Inviato dal suo giornale per un articolo sulla loro storia, non ha più smesso di seguirli fino all’esito finale della vicenda.

Il film è dedicato alla loro memoria.
Ho semplicemente voluto portare la loro storia al mondo“, dice Salim, e racconta di aver tentato di tutto per aiutarli, ha contattato giornalisti ebrei e arabi, è riuscito a rinviare la demolizione per approfondire la loro storia, è vissuto con loro per ore, tutti i giorni, filmando lo scorrere reale di quella vita a cui i due vecchi non volevano rinunciare.

Una vita fatta di niente, nella povertà più assoluta, tante sigarette con le cartine come unico “vizio”, una radiolina per le notizie e la caraffa del thè, immancabile. Ma era stata la loro vita di esseri umani liberi.
Alle spalle di Yousef e Amna una storia di palestinesi “… esiliati dai loro villaggi durante la Nakba nel 1948 – racconta il regista – a quel tempo Yousef aveva 22 anni e fu arrestato dagli israeliani perché sospettato di portare un’arma. Rimase due anni in prigione e poi si trasferì ad Akka fino al 1956, prima di arrivare in Roshmia Valley. Anche Amna era stata esiliata nel 1948 dal suo villaggio Yasour, insieme con la sua famiglia. Aveva 15 anni a quel tempo, e la famiglia si rifugiò in un campo profughi a Gaza. In seguito si è sposata con un uomo di Jenin dove si trasferì. Nel 1977 Amna e Yousef, che avevano perso i loro coniugi precedenti, si sposarono e lei si trasferì a Roshmia. La scelta di vivere quella che molti definirebbero una “vita semplice”, senza acqua ed elettricità, era stata fatta da Yousef già quando si era trasferito lì. Il governo non ha mai voluto fornire la sua baracca con acqua ed elettricità, e lui ha goduto la sua libertà nella sua valle.”

Roshmia è stato girato in sei anni, una lunga gestazione per limiti di risorse e fondi, ma il tempo ha permesso a Salim di diventare una parte della famiglia. Accettato, solo lui e la sua macchina fotografica, nessuna attrezzatura speciale per la registrazione del suono, solo il microfono della fotocamera, li ha osservati nel lento scorrere della quotidianità e lo straordinario documento che ne è derivato è la storia di una vita in cui si riflette quella di un popolo, la sua emarginazione, la dignitosa povertà in cui vive e la sua aspirazione alla libertà.

Il mediatore e amico di Yousef, Aouni Shihadeh, arriva spesso per cercare di rimuovere gli ostacoli, la donna sarebbe anche disposta ad andar via, il suo realismo femminile e il desiderio di lasciare quel posto per tornare al paese d’origine hanno un peso, ma Yousef è irremovibile. Si avvolge con gesto stizzoso la kefiah intorno al capo e dice: “Anche se viene l’intero governo di Israele, io non ho intenzione di lasciare la mia casa“.

Naturalmente le tensioni divampano fra i tre personaggi, la battaglia di Yousef è fatta di resistenza passiva, il corpo indebolito dagli anni e dalle condizioni di vita non permette altro, ma questa storia di sopraffazione scava molto più a fondo di qualunque intifada, è l’urlo senza voce di tutti gli oppressi. Yousef è un uomo severo, brusco di modi e di poche parole. Giovane palestinese sfollato dalla sua città tanti anni prima, ancora da vecchio, a ottanta anni, dovrà ricominciare da capo.

Ho camminato nel buio, senza luce, mi sono fermato in un giardino senza frutti, ho camminato lungo un fiume senz’acqua, chi sa darmi una risposta? Per cosa sto piangendo? La terra è persa, la terra dov’ero cresciuto, sto piangendo sulla vita che devo vivere nei miei ultimi giorni ”.
Le lacrime sono qualcosa che non avremmo mai voluto vedere sulle sue rughe profonde.
Lungo la strada che corre alta sopra la valle continua l’andirivieni di camions e ruspe, il cantiere è avviato, arriveranno ben presto macchine cariche di poliziotti e il trasloco potrà cominciare.
Mai apologetico nè accusatorio, film intenso e discreto,  dà al ritmo lento delle sue riprese una cadenza di poesia che si trasforma in immagine.
Al dolore muto di due vecchi senza Dio, né Jaweh, né Allah che tenga, si addicono i versi di un poeta, Forough Farrokhzad:

Sono abituato alla disperazione.
Ascolta…
Senti il soffio delle tenebre?
Là nella notte qualcosa succede
la luna è rossa e angosciata
è così appesa al tetto
che rischia di morire da un momento all’altro.

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