Home covercinema Sacro gra di Gianfranco Rosi: ai confini della Roma “reale”

Sacro gra di Gianfranco Rosi: ai confini della Roma “reale”

Oltre le periferie romane, spesso protagoniste del grande cinema del passato, in una terra di nessuno che non immagineremmo mai perché scorre troppo veloce fuori dai finestrini, c’è una Roma nascosta e imprevedibile che vive aggrappata ai margini del Grande Raccordo Anulare. Gianfranco Rosi scherza con l’acronimo di questo spazio quasi metafisico che gira ad anello intorno alla città, e lo chiama “sacro”.

Cinema documentario pensato come visione di territori nascosti, SACRO GRA nasce come viaggio fra vita e paesaggio, scoperta di universi alieni e fotografia di città invisibili. Rosi ha percorso per tre anni il raccordo con un camper alla ricerca di nicchie addossate ai suoi margini, vite oltre il muro del frastuono. Vista da lì Roma non è più lei. Quello che Rosi ha trovato è il luogo immateriale delle infinite possibilità, lo spazio in cui nulla è connotato da un’appartenenza e da una storia, dunque ammette tutte le storie possibili, melting pot da cui si è fatto guidare alla scoperta di territori senza mappe, nati per polluzione spontanea: “Mentre cercavo le location del film, in tutti quei mesi passati intorno al Grande Raccordo Anulare, ho portato con me Le città invisibili di Calvino”.

Calvino è dunque il nume tutelare, Nicolò Bassetti, paesaggista, l’autore del viaggio a piedi attorno al GRA a raccogliere storie e voci: da qui è nato il progetto del film.

Il materiale umano è ampio: il nobile torinese e la figlia universitaria, labili apparizioni barricate in un monolocale in cui ognuno vive le proprie allucinate liturgie; il “palmologo” e la sua oasi di palme invase da larve divoratrici; il principe/ginnasta sul tetto del suo castello; l’attore di fotoromanzi, reperto fossile della vecchia Roma cinematografara del tempo che fu; il pescatore di anguille con la grassa moglie ukraina a cui piace tutto dell’Italia, e ancora cubiste da bar, battone e trans, e il barelliere che coccola la vecchia madre, ormai fuori di testa, prima di correre con la sua autoambulanza a raccogliere morti e feriti. Insomma, di tutto un po’.

Campionario di varia umanità, in gran parte collocata in un palazzone con vista raccordo, in qualche caso, come l’anguillaro e il palmologo, in abitazioni che spuntano in aree che nessuna pianta topografica segnalerebbe, creano un formicaio umano ricco di potenzialità sul piano della rappresentazione, bacino a cui attingere a piene mani per un cinema altro, documentario e visionario, presa diretta sul reale e fantastico viaggio ai confini della realtà.

Purtroppo, però, SACRO GRA non è niente di tutto questo. La pellicola infatti annaspa alla ricerca di uno stile, uno scatto, un ritmo che sconfiggano noia e pesantezza. Perché di questo si tratta. Il tratteggio dei personaggi è forzato, si sente l’artificio, la costruzione, dove invece la materia dovrebbe fluire libera e spontanea e la regia restare a discreta distanza; i protagonisti “recitano”, fanno cioè, ovviamente male, quello che mai dovrebbero fare uomini e donne presi dalla strada; la ricerca della battuta ad effetto è pressochè continua, bisogna épater les bourgeois ad ogni costo, e l’operazione riesce fino a quando non comincia a stancare, mentre ci si chiede dove sia finito il GRA e perché sia stato chiamato SACRO.
Il Grande Raccordo, tutt’altro che sacro, appare di tanto in tanto con gran sferragliare di traffico e stra-abusati giochi di luce, a ricordarci che è di lui che si voleva parlare e della gente che ci vive intorno. Ma il collante si è perso chissà dove. In chiusura Lucio Dalla intona Il cielo. E’ un auspicio? Il ricordo lontano di tempi migliori sotto altro firmamento? Ma forse è solo un omaggio alla memoria.

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