Nella brama di vivere di Benedetta (Lidiya Liberman), costretta in un monastero nella Bobbio del 1600 c’è lo spirito di quel Dioniso, ciclicamente redivivo, che attraversa le figure più feroci del cinema di Marco Bellocchio e che con un pompino o un bacio, strappa il velo della regola che ha trasmutato l’irrazionalità della fede o della prassi psicoanalitica, nell’ordine della liturgia. Il Sabba o la risata nera del folle, spezzano la prigione del culto dominante e gridano la propria autoderminazione contro la protezione dal mondo.
Tra la musica e le scelte di Carlo Crivelli, in “Sangue del mio sangue” quella corale è affidata al cantus firmus rivisitato e femminile di Scala & Kolacny, stregoneria o seduzione perpetrata entro confini destinati alle convenzioni del sacro, forza vitale capace di spezzare le catene imposte, in quell’irrudicibilità indefinibile che Benedetta stessa non può raccontare, semplicemente perché non cede allo schema della paura imposto dal dogma.
Benedetta, la rivediamo, per un attimo, fuori dal monastero-prigione, in una tavolata femminile, poco prima che il gruppo di ragazze vestite di bianco approccino il canto e il Conte-Vampiro ne sia rapito; è una delle apparizioni a cui sarà sottoposto il vecchio auto-recluso che ha trascinato con se l’intera comunità di Bobbio, improvvisamente sceso in quel piccolo mondo per difenderlo, ma trafitto da un sorriso, la corsa fugace di due ragazzi, il loro sfondare e improvvisamente svuotare l’inquadratura.
Benedetta è il cinema di Marco Bellocchio; ancora attraversato da una furia incontenibile, libera immagini inafferrabili dallo sguardo, che superano il legame con il simbolo per farsi segno, purissimo, in dialogo sincronico con tutta la sua filmografia, esattamente come “Sangue del mio sangue” imposta la stessa sovrimpressione attraversando la Storia.
Non ci sembra indispensabile issare sul tavolo autoptico il film del cineasta emiliano, assegnando segni e apparizioni a significati angusti; come nella splendida sequenza conclusiva di Bella Addormentata, quella dove Maria si riavvicina al padre in un movimento che non è semplicemente conciliante o risolutivo, ma nella sua chiarezza rimane tra le pieghe di un sentimento possibile.
“Sangue del mio sangue” è un film sospeso tra sogno e veglia, e avvicinandosi alla dimensione di un paese intero murato vivo o costretto a vivere in apnea, irrompe continuamente in questo stesso assetto introducendo continue riallocazioni del punto di vista, fugaci apparizioni, passaggi dall’ombra alla luce, sguardi e gesti che dal fuori campo anelano un momento di vita, come l’inseguimento impossibile tra chiostro e scale. Un salto nel vuoto: il diavolo nell’occhio.