Home alcinema Scappa – Get out di Jordan Peele: Cannibalism begins at home

Scappa – Get out di Jordan Peele: Cannibalism begins at home

Get out, il film di Jordan Peele nelle sale italiane

Jordan Peele firma con “Get out” la sua prima regia effettiva per “la casa” di Jason Blum dopo un lunghissimo apprendistato televisivo culminato con il popolare show “Key and Peele“, condiviso insieme ad un altro comico, Keegan-Michael Key. Lo spirito di quegli sketch old-fashioned che con un formato classico affrontavano temi di attualità politico-sociale è in parte sintetizzato da Keanu, la commedia che Peele ha scritto per il cinema, diretta da Peter Atencio, già nella crew di K&P.
“Get Out” si porta dietro lo stesso gusto per il rovesciamento esplicito che nella serie trasmessa da Comedy Central ha veicolato quel sentimento post-Obama fino alla sua interruzione poco prima delle elezioni presidenziali. Nei bozzetti comici della coppia, Obama parla con la cadenza seducente imitata da Peele, mentre Luther, il suo fedele traduttore, da corpo ai pensieri inespressi del presidente, nascondendo l’anima di un afro-americano incazzato.
La relazione tra superficie e senso delle immagini è il motore principale di “Get Out”, la cui strategia  è proprio quella di giocare con l’esplicita esasperazione di alcuni paradigmi, per trovare un punto di contatto tra commedia e horror. La critica di massa italiana, da Repubblica in giù, fotocopiando la stampa statunitense che è arrivata qualche mese prima, ha utilizzato come riferimento principale uno dei film più noti di Stanley Kramer per raccontarci quanto il film di Peel sia un’intelligente rilettura di “Guess Who’s Coming to Dinner”.

Abbiamo alcuni dubbi a riguardo; la distanza tra contesto politico e immagini è ovviamente siderale e se il film di Kramer, a soli quattro anni dal discorso televisivo di Kennedy sui diritti civili, si rivolgeva proprio all’upper class liberale e progressista senza intaccare in modo radicale i codici hollywoodiani, Peele incorpora gli stereotipi sulla cultura nera come deriva cognitiva generale, radicata in un tessuto sociale non facilmente codificabile attraverso consuete simmetrie, tanto da sostituire i clichè umanisti di Kramer con un feroce cinismo che  fa pensare all’impietosa lettura di “Indovina chi viene a cena?” fatta da James Baldwin nel suo fondamentale “The Devil Finds Work“.

In un momento in cui alcune distopie post-moderne tornano ad interessare il pubblico americano, da The handmaid’s tale fino a The Man in the High Castle per quanto riguarda i serials, oltre ad uno svariato numero di film che si basano sulle stesse dinamiche, Peele si inventa una delle sue gustose gag sfruttando meccanismi simili e mettendo in relazione il “sopra” e il “sotto”, il visibile e l’invisibile con uno spirito à la Wes Craven, citato in più di un’occasione, sopratutto per quanto riguarda uno dei film più potenti e meno conosciuti del compianto autore di Cleveland: “The People Under the stairs”. 

Il ritratto di un’America che non ha mai dismesso l’anima più oscura e razzista interessa a Peele a partire dagli strumenti più evidenti della comunicazione di massa, veicolo di manipolazioni infinite e allo stesso tempo filtro attraverso cui liquefarne altri. 

Daniel Kaluuya è Chris, il ragazzo nero di Rose (Allison Williams). Quando la giovane ragazza decide di presentarlo ai ricchi genitori liberali (Bradley Whitford e Catherine Keener) lo rassicurerà sul contesto: “Se fosse stato possibile, mio padre avrebbe votato Obama per la terza volta”. Nell’immensa villa che separa il rischio di un qualsiasi vicinato molesto, grazie ad un parco il cui orizzonte si perde a vista d’occhio, la famiglia Armitage nasconde un delirante disegno superomista. 

L’occhio di Chris rileva l’aberrazione prima che questa si palesi chiaramente, ed è proprio grazie alle analisi di Baldwin e Toni Morrison che può individuarla nella devozione dei domestici e nella bonomia con cui gli Armitage si rivolgono a loro, parodia rovesciata dell’accondiscendenza che Tillie (Isabell Sandford) dimostra nei confronti dei Prentice nel film di Kramer. 

Consciamente o meno, Peele si è formato assorbendo una costante messa in abisso delle tracce “black” disseminate e digerite in un contesto globale negli ultimi 50 anni. Keegan-Michael Key che canta freedom di George Michael in Keanu ha la stessa valenza degli Armitage che contrastano il razzismo evidente del figlio con una “correctness” stucchevole e innaturale, mentre la dimensione passiva della servitù di colore viene rappresentata con un potenziale tipico dell’immaginario horror, quello degli Zombie che ancora conservano un barlume di coscienza, quando entrando in contatto con l’occhio di un osservatore meccanico (il telefonino di Chris, la DSLR), riescono ad osservarsi allo specchio. 

Il sonno ipnotico in cui sprofonda Chris è quello della cultura black che non riesce più a riconoscersi se non attraverso la rappresentazione esterna. Nel sottomondo la comunicazione è garantita da un vecchio televisore a tubo catodico, testimone dell’eredità famigliare degli Armitage, segno di una percezione passiva dei media, come quella degli anni cinquanta, incorporata nelle nuove rimediazioni.

Da questo punto di vista  Peele lavora in modo chiaro e didascalico con un materiale che ci consente stratificazioni più complesse, in ogni caso, anche quando il rovesciamento è esplicito, come l’arrivo della polizia dopo lo scontro finale che costringe Chris al gesto automatico di alzare le mani, non solo per i cadaveri che lo circondano, più delle questioni razziali, Get out racconta il processo di una cannibalizzazione semiotica e culturale dove la blackness, oltre ai disastri della cinefilia, è solo una piccola parte di un problema più vasto, legato alla cancellazione della differenza come elemento costitutivo dello spazio sociale e creativo.

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