Ambientato in una Berlino invisibile, raccontata attraverso i luoghi più intimi dell’aggregazione famigliare, il primo lungometraggio di Sarah Miro Fischer osserva da vicino le conseguenze di una condotta violenta sulla vita quotidiana di un nucleo. La relazione di grande complicità tra Rosa e il fratello Sam, si incrina quando il secondo viene accusato di stupro e la ragazza, chiamata a testimoniare sui contorni della vicenda, non riesce ad assumere una posizione chiara.
Pur trovandosi nella stanza accanto, non le è possibile codificare limiti e confini del consenso, tanto da vivere un proprio spaesamento morale e percettivo, quando verrà convocata per un’udienza privata.
Fidarsi del fratello oppure credere alla vittima? Su questo dubbio, la regista berlinese costruisce un percorso di agnizione che investe prima di tutto lo stesso processo identitario di Rosa all’interno di una famiglia i cui principali referenti sono la madre e il fratello.
Il suo stesso sguardo interno ed esterno, comincia ad interrogare in modo sottile, ma pervasivo, il ruolo della violenza nelle relazioni interpersonali e quanto la cultura dello stupro abbia contaminato gesti e attitudini quotidiane.
Il personaggio interpretato da Marie Bloching azzarda un cambio di prospettiva e occupa quella posizione simmetrica rispetto ai ruoli prestabiliti nelle microsocietà che abita, avvicinandosi di volta in volta alla soggettiva della vittima e a quella dell’abusatore.
La scrittura di Sarah Miro Fischer, condivisa in fase di sceneggiatura con Agnes Maagaard Petersen, sceglie le forme più scabre ed ellittiche del cinema del reale, azzerando il ruolo della musica ad una funzione dello spazio finzionale e lavorando sulla descrizione di una quotidianità apparentemente inerte, capace di reagire con grande potenza mentre lo spettatore mette insieme insieme i frammenti.
Sara è un’osservatrice esterna chiamata a situarsi rispetto ad un evento di rilevanza penale e a due prospettive emotive. La prima squisitamente famigliare, dove la forte interazione psichica e fisica con il fratello viene delimitata dal ruolo delegittimante e allo stesso tempo, protettivo, della madre. La seconda, più difficile, è la richiesta non scritta di uscire dalla propria comfort zone, per estendere l’empatia alla sofferenza di una sconosciuta.
La visione periferica, fuori dal centro dell’evento a cui Sara non ha potuto partecipare se non interpretando suoni e rumori distanti, diventa sguardo stesso sulla realtà, come in un anti-thriller dove la detection è semplicemente una scusa per sondare i propri limiti e le numerose manifestazioni dell’abuso.
Senza cedere a facili maledettismi, lo stile di Sarah Miro Fischer rimane ancorato ai segni possibili dell’esperienza, con la rivelazione di una sofferenza che sfiora tutti i personaggi e in qualche modo li connette tra di loro.
La difficoltà di rivelare il proprio corpo per le sessioni di nudo d’artista, diventa a un certo punto la linea di demarcazione da oltrepassare, ed è nel passaggio dall’occhio della disegnatrice all’oggettificazione fisica, che la ragazza si presta ad un’esposizione che possa includere la sofferenza.
Ed è un transfert anche la pratica dolorosissima di depilazione inguinale a cui si sottopone, nel salone dove lavora la ragazza stuprata. Una sequenza che non viene mai caricata di senso, ma che può essere stratificata in molte direzioni, per il modo in cui trattiene e rilascia una tensione violenta.
Sono inversioni di ruolo che evidentemente interessano alla regista berlinese e che la conducono nuovamente vicino ad un suo precedente corto, intitolato Spit, dove le fantasie di una donna ai limiti con la biastofilia, vengono reintegrate nella relazione scopica e allusiva tra Rosa e un collega di disegno, incontrato durante i corsi serali.
La ragazza sembra occupare quella linea dell’aggressione sessuale che potrebbe assumere alternativamente i tratti ereditari o emulativi di una storia famigliare. Ma più di un’analisi capillare delle motivazioni annesse, è interessante il modo in cui si lascia allo spettatore la decisione di rilevare tutte le risonanze e tutti i limiti che separano fantasia e violenza, abuso e scelta.
La fotografia di Selma von Polheim Gravesen, giovane e talentuosa specialista della camera a mano, contribuisce ad avvicinare i corpi degli interpreti ad una necessaria intimità dello sguardo e ad una sofferente diversità delle loro stesse ragioni.
Rimane fuori campo, come sguardo dolente e incendiario, austero e chiuso nel proprio dolore, proprio quello della ragazza stuprata, interpretata da Laura Balzer.
Vista fugacemente da Rosa mentre sbatte la porta dell’appartamento condiviso con il fratello, e successivamente durante la sessione di peeling, è una figura osservata con estremo pudore. Proprio per questo, preme dall’esterno come un fuori campo indicibile, senza che intorno a lei venga costruita un’aura pietista.
Ed è sicuramente l’ellisse più forte del film, quella che spinge la protagonista a percorrere a ritroso e quindi a decostruire le soggettive dello stupro, vivendolo come una possibilità di riconoscimento del proprio corpo e della propria identità all’interno di un tracciato intimo e famigliare.
Sara diventa oggetto e soggetto attivo, abusata da una platea e abusatrice violenta di una fantasia condivisa solo in parte.
Un percorso necessario affinché lo sguardo del testimone/spettatore dismetta quella «volupté maligne» di cui parla Montaigne, così da sciogliere la complicità con la violenza, per attivarne un’altra, di segno opposto.
Girato in ordine cronologico per consentire agli interpreti una stupefazione emotiva altrimenti impossibile, The Good Sister è un coraggioso tentativo di raccontare morfologia e radici della violenza, come un percorso a ritroso di apprendimento situato, che consenta di sorprenderci soggetti tra altri soggetti.
The Good Sister di Sarah Miro Fischer (Schwesterherz – Germania/Spagna 2025 – 96 min
interpreti: Marie Bloching, Anton Weil, Proschat Madani, Laura Balzer, Jane Chirwa
Sceneggiatura: Sarah Miro Fischer, Agnes Maagaard Petersen
Fotografia: Selma von Polheim Gravesen