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Scrapper di Charlotte Regan: recensione

Con Scrapper Charlotte Regan si inventa un cinema in continuo movimento, slegato dalla tradizione del dramma sociale e molto più "free" nell'assecondare le schermaglie padre-figlia come motore essenziale della narrazione. La recensione del film Gran Premio della Giuria al Sundance 2023

A soli dodici anni, Georgie libera da catene e lucchetti tutte le biciclette parcheggiate nell’East End londinese. Le rivende in blocco insieme al compagno di scorribande Ali per mantenersi. Sola e randagia dopo la morte della madre, ha imparato ad evitare i controlli dei servizi sociali e ad abitare i colori saturi e brillanti della suburbia.
Una dimensione dell’esperienza urbana, miracolosamente sospesa tra euforia e disagio, isolamento e urgenza.
Come negli still life proletari filmati da Mike Skinner nel videoclip di Brexit at Tiffany’s, la desolazione dei complessi architettonici oltre la la linea della città che conta, sembra determinare l’orizzonte dell’assenza. Ai margini i luoghi sono quelli che caratterizzano la perdita di coordinate identitarie, dove possono sovrapporsi ed acutizzarsi tutte le altre declinazioni del vuoto, dallo schianto amoroso alla morte. Eppure Charlotte Regan evita del tutto gli stereotipi e i pregiudizi negativi che hanno caratterizzato il punto di vista della periferia, soprattutto nella storia del cinema britannico.

Con rinnovata energia e creatività, parte proprio dai colori illuminati dalla talentuosa Molly Manning Walker, qui direttrice della fotografia mentre ancora lavorava al montaggio di How to Have Sex.
Rilegge l’estetica deambulatoria di Alan Clarke e la libera dai colori plumbei degli anni settanta senza definire chiaramente la collocazione temporale della vicenda, se non attraverso la funzione dei dettagli ambientali, con la stessa naturalezza anti-didascalica che rievocava i novanta in Aftersun.
E proprio con il film di Charlotte Wells, oltre all’epoca, condivide il tema della relazione padre-figlia.
Ma se il film della regista scozzese si formava nel dissidio tra ricordo e riattualizzazione della memoria, Regan sceglie la metamorfosi del presente, attraverso la visione urgente e fortemente soggettivizzata di Georgie immersa nel contesto urbano.

Fieramente autonoma, ha imparato a fare a meno di regole e adulti, ridefinendo i confini conosciuti della città come spazio poroso e flessibile da forzare e piegare.
Il ritmo che Regan conosce bene è quello del videoclip contemporaneo nel suo oscillare tra suoni in presa diretta e musica. Ed è proprio un brano di The Streets ad accordare le prime immagini del film dalla prospettiva di un’adolescenza costantemente in fuga, ritrovando la forma e la sostanza attitudinale di un cinema punk regolato sulla velocità, la marginalità e l’improvvisazione.

Quando un giovane uomo chiamato Jason si presenta come suo padre davanti all’uscio di casa, la resistenza di Georgie cerca di impedire che quello spazio senza regole mantenuto fino a quel momento venga occupato da una presenza estranea e apparentemente coercitiva. L’eredità materiale della casa, come confine identitario specifico, è il diaframma che consente ad entrambi di dare un senso alla spaventosa libertà di un mondo senza confini. Senza di essa le loro vite sono sospese tra il baratro e la gioiosa irresponsabilità che trasforma il mondo in uno spazio per giocare.

Ecco che Regan si inventa un cinema in continuo movimento, slegato dalla tradizione del dramma sociale e molto più “free” nell’assecondare le schermaglie padre-figlia come motore essenziale della narrazione.

La magia che Georgie nasconde nella sua stanza quasi per connettersi in termini cosmici alla figura della madre, è una costruzione materiale che consente al racconto di aprirsi alla dimensione del sogno con una modalità non dissimile dagli accumuli seriali che intasano l’abitazione della giovane Maria in Hoard. Non è semplicemente una similitudine figurale, quanto il segno di una libertà visuale e semiotica del nuovo cinema inglese, che pur muovendosi da tradizioni ingombranti e codificate, riesce a rileggerle con rinnovata creatività.

In questa trasfigurazione soggettiva del mondo, si modifica anche la forma del ritratto che Regan ha progressivamente affinato con i suoi corti, su tutti Drug Runner dedicato ad uno spacciatore di cocaina di quindici anni, descritto nel suo girare a vuoto tra strade e murales. In Scrapper, Le compagne “posh” di Georgie, il piccolo milieu criminale di adolescenti in bicicletta, fanno coesistere la fotografia di strada con i colori estremizzati di un iperrealismo pittorico.

Con un procedimento simile, la coscienza di Georgie è sottoposta a glitch, aberrazioni cromatiche e digitali, mentre i grandi ragni che popolano le abitazioni londinesi subiscono una trasformazione cartoonistica; Regan ci costruisce intorno delle gustose vignette dialettiche mixando con un vero e proprio pastiche l’estetica a otto bit dei vecchi videogames, il fumetto e le forme di messaggistica conosciute attraverso gli smartphone.
Anche in queste digressioni, mantiene la forma urgente e giocosa dell’insieme, con i dialoghi ludici e vitali tra l’irresistibile Lola Campbell e Harris Dickinson, capaci di trasformare la percezione della periferia come spazio aperto insieme al progredire del loro rapporto affettivo.

Georgie e Jason sono due outsider, e come accade spesso nel cinema di queste nuove generazioni britanniche, non occupano la fissità di un ruolo stabilito dalle regole del racconto di formazione.
Nel mondo libero e autonomo di Georgie, la capacità di Jason di diventare padre non passa dall’educazione, ma da un’indomabile voglia d’amare che si connette alla ribollente necessità di movimento e trasformazione della figlia.

Scrapper di Charlotte Regan (GB 2023 – 84 min)
Interpreti: Ambreen Razia, Jessica Fostekew, Asheq Akhtar, Joshua Frater-Loughlin, Aylin Tezel, Harris Dickinson, Laura Aikman
Sceneggiatura: Charlotte Regan
Fotografia: Molly Manning Walker
Montaggio: Billy Sneddon

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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