In tempi di migrazioni forzate dove si perde completamente il senso della scelta deliberata, l’approdo del rifugiato coincide con l’adattamento coatto senza alcuna possibilità di radicarsi. L’esiliato non può tornare indietro mentre perde quel senso di appartenenza alla terra che viene cancellato da un orizzonte in continua mutazione. Dove il distacco dalla realtà e la mancanza di un centro per la figura borghese del flâneur è un modo per uscire ed entrare dalla selva sociale senza soluzione di continuità, il fugueur, il cui deambulare è associato a quello dei folli, sperimenta la crisi identitaria come una maledizione, costretto com’è a vagare senza trovar casa e risposte, a causa di un trauma che colpisce la sfera del ricordo, quella della Storia e anche la dimensione percettiva dello sguardo.
Il filosofo canadese Ian Hacking, alla fine degli anni novanta ha dedicato un volume alla figura del fugueur e al di là del percorso storico legato alle ricerche neurologiche di Jean-Martin Charcot nella clinica della Salpêtrière, stimolo per il primo film diretto da Alice Winocour, quello che è interessante nella sua ricognizione è il modo in cui descrive uno stato transizionale oltre le occorrenze della malattia mentale. Se la casualità della flanerie è del tutto deliberata, quella del fugueur sta a metà tra impulso e intenzione, perché il primo abita una posizione sociale riconoscibile anche storicamente, mentre il secondo vive uno stato di obnubilamento della coscienza che lo assimila alla condizione di un esiliato.
Un fugueur immaginario recente, inclusa la perdita delle facoltà cognitive, è l’ebreo interpretato da Christopher Plummer in Remember, il nuovo film di Atom Egoyan presentato in concorso a Venezia 72. Zev è un personaggio che vive la confusione tra oblio e trauma mentre non può abitare alcuna terra; se si trattasse di memoria, la sua avrebbe la facoltà di cancellare.
Mentre Egoyan con il suo ultimo film rovescia in modo beffardo gli aspetti razziali che Charcot cercava di dimostrare attraverso l’ipotesi ereditaria della malattia descritta nell’esperienza di Klein, l’ebreo errante della Salpêtrière; i personaggi del cinema di Denis Villeneuve occupano alternativamente lo spazio soggettivo del flâneur e del fugueur. Le tracce che questi ispezionano e raccolgono oltre a manifestarsi nell’incertezza del viaggio, vengono rilevate sul crinale tra meraviglia e orrore, confine evidenziato geograficamente e ad un livello più interiore nel percorso di Jeanne Marwan sulle tracce della madre, in quella ricombinazione dei territori mediorientali distrutti che ne La donna che canta sovrapponeva storie personali e politiche, mentre in Prisoners ed Enemy la città occidentale diventava un reticolo esplorato sopra e sotto la superficie architettonica.
Questi due scenari convivono in Sicario fin dalla prima sequenza, quando Kate Macer (Emily Blunt) insieme ai colleghi dell’FBI-SWAT allarga il buco di una parete provocato da un’arma da fuoco per scoprire un cimitero costituito da decine di cadaveri mutilati e nascosti lungo tutta la struttura architettonica. Andreas Huyssen, in Present Pasts: Urban Palimpsests and the Politics of Memory recupera il concetto di flanerie secondo Benjamin come una forma di archeologia culturale che rileva un passato nascosto da successive stratificazioni, per esaminare il contrasto tra il World Trade Center prima e dopo l’11 settembre, convivenza tra un passato monumentale, un cimitero, uno spazio adibito alla ritualità memoriale, un luogo abitativo per migliaia di newyorchesi.
Se nelle grandi megalopoli lo sguardo distaccato e acuminato del nuovo flaneur incarna il bisogno di mantenere la propria individualità entro la densità degli spazi urbani dove si registra una progressiva perdita di identità, quel “terrore di girovagare” ancora vivo nelle popolazioni nomadi di cui parlava Benjamin nella descrizione del passaggio dalla strada al labirinto urbano, viene identificato da Villeneuve in Enemy con la paura dello straniero come incapacità di entrare in relazione con la propria mente, tanto che Toronto viene filmata attraverso le prospettive dell’architettura brutalista per rilevare il contrasto tra volumi razionali e astrazione metafisica, oppure con lo sguardo puntato sul reticolo di cavi e fili di alimentazione per le motrici tranviarie e ancora attraverso l’inestricabile panorama di cemento opposto agli spazi di una città svuotata, dove non sembra esserci traccia umana.
È una pulsione verso lo spazio vuoto e il vicolo cieco che lo stesso Villeneuve descriveva come la “meravigliosa oscurità di Toronto” secondo una prospettiva che da turista, non era assolutamente turistica. Questa stessa tensione, in Sicario diventa l’incontro tra flanerie e fugue nella sovrapposizione terribile tra scoperta dello sguardo e cecità del vagare a vuoto. Le musiche di Jóhann Jóhannsson (Leggi l’intervista al compositore Islandese, qui su indie-eye) seguono questa progressione inesorabile, secondo lo stesso musicista islandese composte pensando al “battito cardiaco di una bestia selvaggia pronta a sferrare un attacco dalle viscere della terra“, emersione dall’oscurità alla luce del sole mentre l’occhio discende verso gli inferi nel percorso soggettivo di Kate continuamente indirizzato alle facoltà percettive.
Matt Graver (Josh Brolin) e Alejandro (Benicio del Toro) spingono la donna in uno spazio passivo chiedendole continuamente di imparare guardando e di trasformare il proprio sguardo nell’esperienza testimoniale. Ian Hacking nella sua analisi del fugueur definisce il viaggio come la metafora per la scoperta del Se, mentre per Benjamin qualsiasi traccia il flaneur si trovi a seguire, questa porterà sempre alla radice di un crimine. Quando Kate entra nello spazio urbano di Juarez a bordo di un’auto, osserva la città dal finestrino. Non è lei al volante e la nostra prospettiva è allineata alla sua, mentre la scoperta di un luogo sconosciuto assume le caratteristiche di un travelogue oscuro, con i cadaveri appesi alle campate di un ponte e la città che dischiude gli aspetti più ferini e tribali, come i corpi tatuati dei trafficanti, figure dolenti e terribili che Villeneuve filma incastrati nella fiumana di metallo di un’uscita autostradale.
Osservare ha un’accezione del tutto negativa in Sicario e il regista quebechiano rende sempre più periferico lo sguardo anche quando la visione notturna dei dispositivi militari dovrebbe squarciare l’oscurità. La sospensione onirica che consente al flâneur Benjaminiano di rimanere a metà tra la propria coscienza e lo spazio materiale non ha più le caratteristiche di un nascondiglio sotterraneo e sicuro dove si scoprono le passate esistenze tra le rovine; il passaggio della frontiera attraverso un tunnel è al contrario il ventre della bestia dove lo sguardo non può più catalogare, individuare, distinguere, scegliere, perché le facoltà dello sguardo sono annichilite
L’unica visione panoramica che Villeneuve sembra associare alla scoperta dell’orizzonte visivo, sostituisce lo stupore per i “fuochi d’artificio” con il raggelamento generato dai lampi delle armi da fuoco nel distendersi della città notturna come zona di guerra, mentre i riferimenti ad un conflitto che provoca più morti della droga innervano tutto il film, il cui incedere diventa quello di un inquietante film bellico dove legge e cartelli della droga condividono lo stesso piano.
Qui lo spazio sacrificale è quello occupato dai migranti, dai disperati che non hanno alternative per mantenere la famiglia, dai wanderer senza terra ammassati davanti agli autobus e che Villeneuve filma fermandosi solo un attimo su volti e corpi, cogliendoli in uno spazio transizionale.
Il bordo allora, come il percorso sincronico tra Jeanne Marwan e la madre Nawal attraverso la convergenza dei luoghi e la divergenza del tempo, il tessuto torontoniano in Enemy e i nascondigli delle abitazioni famigliari di Prisoners nello scambio continuo tra carcerieri e reclusi, mette in comunicazione tutti i personaggi di Sicario con un altro da se che assume caratteristiche geografiche, politiche, interiori, in una rappresentazione del doppio fuori dalla dialettica binaria e come in tutti i film dell’autore canadese, sottoposta a continue riallocazioni soggettive.
La narrazione nel cinema di Villeneuve non è mai un sistema; al contrario segue la direzione di un processo dove le aperture si moltiplicano e le cicatrici non si rimarginano. Se il Messico è il rovescio e la discarica cimiteriale degli Stati Uniti, Kate attraversa per la prima volta quel limen approdando ad un’agnizione che non include la comprensione, se non quella di un nemico che germina dall’interno con una furia distruttiva e auto-distruttiva. Alejandro abita quello stesso confine perpetrando la sua essenza grazie alla protezione della legge mentre apre ulteriori ferite nel compimento di una traccia vendicativa: l’orrore subito che si riflette in quello agito.
Sono spaccature continue innestate sull’apparente linearità di un film che sprofonda nelle tenebre e dove l’unico recinto di luce sorge da quel piccolo lembo di terra dove gli adolescenti giocano a calcio; circondati da un mondo permanentemente in guerra si fermano un attimo ad ascoltare gli spari lontani nello spazio dell’esilio, senza identità né orizzonte.