Tra le questioni scarsamente analizzate nei percorsi di scienze della comunicazione, il contrasto tra le caratteristiche persuasive della tecnologia e la formazione di un pensiero attivamente critico, occupa una posizione particolarmente marginale. Questo perché l’esperienza dei social media pilotata da alcune filosofie aziendali, tende a rafforzare forme di polarizzazione identitarie, utili per addestrare l’utente, specializzato o meno, al controllo delle narrazioni. Si ripropone un vecchio modello del pensiero binario che ruota intorno ai concetti di comunità, verità, coesione e di conseguenza creazione di un potenziale nemico collocato fuori dalla bolla di riferimento.
Più delle istanze legate alla ricerca, lo sviluppo e la diffusione di contenuti, l’ecosistema frammentato che ha disintegrato il concetto di comunità, per quanto si affidi spesso a quella stessa retorica, assegna lo statuto di verità ai fenomeni riconosciuti come performativi e persuasivi in base alle logiche del marketing.
Non è allora casuale che Kristoffer Borgli abbia scelto il mondo della creatività e dell’espressione artistica come veicolo di quel narcisismo distruttivo che sperimentiamo ogni giorno con la relazione tra corpo fisico, identità e spaziotempo digitale condiviso.
Thomas, artista che eleva il furto di complementi d’arredo al riuso combinatorio di Objet trouvè, colloca sullo stesso piano la presenza della compagna Signe. Marginale oppure funzionale rispetto all’intensità performativa che caratterizza ogni azione del fidanzato, la giovane donna cerca un grado di attenzione necessario e sufficiente per emergere dallo sfondo.
L’assunzione massiva di un farmaco sul bordo della legalità come il Lexidol produce sul volto e sugli arti superiori di Signe gravissime allergie in grado di mutare radicalmente morfologia e funzioni corporee.
Il transfert simbolico tra oggetto e soggetto d’arte che dal dadaismo alla Body Art mette al centro l’energia performativa come massima espressione pulsionale, trova una tavolozza comune nelle azioni di Signe. Il suo corpo martoriato da continue escoriazioni, sanguinamenti e mutazioni degenerative, concentra tutti i conflitti interiori di una generazione sospesa tra dolore e superamento post-umano, nella vetrina dei sentimenti offerti in pasto alla rete.
Borgli, invece di scegliere uno dei due mondi, li mette costantemente in abisso, discutendo la supremazia del corpo rispetto alla dimensione psichica. Il processo è quello dell’incorporazione, ma la direzione dell’assorbimento scambia continuamente la posizione della realtà incorporata rispetto a quella percepita. Sogno, immaginazione e incubo servono a ricontestualizzare alcuni desideri nel regno della psiche, mentre il corpo, veicolo di esperienze atroci, è spazio di confine, radicato tanto nella verità empirica, quanto nella prassi falsificante delle costruzioni narrative.
Nella violazione estrema del proprio corpo, Signe sembra riferirsi a quella riappropriazione dell’organico e alla successiva rielaborazione post di artiste come Bronya Humphreys, Kartiki Bhatnagar e soprattutto Ariana Page Russell, che ha trasformato la propria pelle in un supporto creativo, stimolando all’occorrenza le reazioni causate dall’orticaria dermografica di cui soffre, per produrre disegni ed esplosioni floreali sul corpo infiammato.
A ben vedere, intenzioni inclusive legate alla neutralità e alla positività del corpo che informano l’arte di Russell non attivano le scelte di Signe. La prospettiva rovesciata è quella che nutre i confini dello spazio competitivo con la creazione artificiale di un’eccedenza estrema.
La sofferenza percepita, dall’assalto di un cane feroce che attacca la giugulare di una donna alle immagini trovate in rete che anticipano l’esperienza della donna con il Lexidol, rappresentano le prime occasioni per sostituire la realtà condivisa con i principi di simulazione.
Il regime entro cui si muove Signe è quello dell’agire produttivo reificato dall’architettura social media, poco importa che questi premano dai margini nel film di Borgli, perché i confini sono proprio quelli della semiotica digitale dove la relazione tra oggetto e segno risponde ad una serie di obiettivi che mettono al centro le strategie di posizionamento, segmentazione, comunicazione e rendimento performativo.
Oggetto e soggetto, nel regime dell’autoscatto, si fondono come variante misurabile della forma-merce.
Borgli sembra sollecitare una riflessione sulla sopravvivenza dell’intuizione intellettuale in un labirinto di specchi che non rivela mai una rottura della superficie. Lo sguardo si colloca allora a distanza, architettando un continuo disallineamento tra la veridicità dei due livelli di realtà.
Persino il pianto, il dolore nel riconoscimento dell’horror vacui come produzione della propria mente, non consente allo spettatore di uscire dalla macchina celibe cinica e nerissima costruita dal regista norvegese. Altrettanto volutamente, l’uso insistito dell’ironia non scioglie i nodi tra linguaggio letterale e figurato, esattamente come per lo slittamento tra sogno e realtà.
Una distanza che complica e disattende l’avvicinamento empatico alla sofferenza anche per il sovraccarico di materia concettuale in gioco, stimolante e freddissima, possibile eppure non del tutto esplorata.
L’iconografia evidente di volti e maschere trasfigurate, da Franju a Teshigahara, passando per le numerose rielaborazioni contemporanee, non raggiunge la dolente intensità di Dirty Dog, nella miracolosa collaborazione tra Sacha Polak e Vicky Night, inseguendo al contrario un distacco surrealista fuori tempo e fuori luogo. Le sollecitazioni più evidenti del presente vengono allora sfruttate per elaborare una serie di concetti che precedono le immagini stesse, prodotto caotico di un’esperienza imperfetta e frammentata che ci coinvolge tutti, davanti e dietro gli schermi.
Parte della progettazione di uno sguardo organizzatissimo, il lessico visuale di Sick of Myself preleva a piene mani dal cinema della realtà, nell’imitazione assorbita ormai anche dall’advertising: insistito utilizzo dello zoom, stacchi ex-abrupto, estetica del reality. Il vero e il falso che giocano a rimpiattino in un “alt” movie di vent’anni fa.
Sick of Myself di Kristoffer Borgli (Syk Pike – Norvegia 2022 – 97 min)
Interpreti: Eirik Sæther, Kristine Kujath Thorp, Fanny Vaager, Sarah Francesca Brænne. continua» Fredrik Stenberg Ditlev-Simonsen, Steinar Klouman Hallert, Ingrid Vollan, Andrea Bræin Hovig, Henrik Mestad, Anders Danielsen Lie, Frida Natland, Guri Hagen Glans, Mathilda Höög, Seda Witt, Terje Strømdahl
Sceneggiatura: Kristoffer Borgli
Fotografia: Benjamin Loeb