Lo sconfinamento tra finzione e documentario è al centro della filmografia di Sacha Polak con qualità e metodi diversi rispetto alla rimessa in scena del reale che caratterizza un’ibridazione ormai frequente nel cinema globale. C’è qualcosa di più rispetto al dissidio tra flagranza e organizzazione del punto di vista nei lavori dell’autrice olandese stanziata in Inghilterra.
Silver Haze spinge oltre la collaborazione con Vicky Night, stabilendo una relazione intima con la sua storia personale, a partire dalla rappresentazione del corpo e dalla sorgente di segni che questo può liberare.
L’infermiera e attrice non professionista, vittima di un incendio che all’età di sette anni ha ustionato il trenta per cento del suo corpo, mostra sullo schermo i segni e le mutazioni causate dal fuoco in un percorso catartico e identitario che è cominciato con Dirty God, il primo film britannico di Polak, per continuare con questo Silver Haze, racconto di rabbia, ricerca e riscatto che pur riflettendo eventi e conseguenze connesse alla sua biografia, si slega dal peso dell’autofinzione, generando nuovi mondi narrativi e poetici.
Sono quindi opere di finzione quelle di Polack, che riescono a penetrare realtà radicate nell’intimità di luoghi e persone, con cui riesce a stabilire uno scambio vivo tra verità e trasfigurazione drammaturgica.
Vicky Night supera il trauma e la paura di un passato che ha depositato segni indelebili sul suo corpo, con una prassi attoriale che imbriglia l’identità in una rete di storie.
Si assiste quindi ad un transito tra il tempo vissuto, inscritto nei segni che Vicky porta sul corpo e una soggettivizzazione dei personaggi interpretati, che comprendono e trascendono l’esperienza. Questa mediazione racconta Vicky e i suoi personaggi suggerendoci costruzioni identitarie che non sono quelle cicatrici visibili in superficie, né dipendono dalla loro descrizione.
L’intersezione tra vite reali, immaginate e sottoposte a nuove figurazioni, porta già con se la compenetrazione di un processo personale con quello dell’intera collettività, allargando la prospettiva verso lo scambio intersoggettivo.
Con il sodalizio tra Night e Polack, pensarsi, immaginarsi, vedersi e raccontarsi, è il risultato di un processo che mette al centro lo spazio occupato dal corpo femminile, per rivelare altre possibilità percettive, attraverso quelle storie di violenza, abuso e abiezione che infestano la prassi quotidiana di inquadrare e riprodurre storie.
Dirty God, più di un film sull’abuso, si caratterizzava per la collocazione fuori campo della violenza e sui riflessi di questa, profondamente radicati nella digitalizzazione dello sguardo e nella sovrapposizione tra identità e corpo rappresentato. L’acido che colpisce il volto di Jade fa meno male dello sguardo che scrutandone i segni impressi sul volto, svuota l’identità e salda la pelle con l’immagine di una maschera mostruosa.
L’incendio che ha cambiato il corpo di Franky in Silver Haze è un evento invisibile, ricombinato dall’attività psichica della giovane infermiera, nell’amplificazione del ricordo e nel carico di significato emotivo che viene assegnato a quella tragedia. Polack ci mostra brevi flash onirici, fiamme nel buio che investono lo schermo e che sembrano promanare dal desiderio più che dalla dimensione fattuale.
Il corpo, tramite tra Vicky attrice e Franky personaggio, è connesso alla tragedia in termini emotivi, ma non viene plasmato e ricodificato dallo sguardo esterno.
Il percorso di accettazione di Franky è allora possibile grazie alla bellezza che Florence riesce a scorgere accarezzando e baciando la sua pelle, ma anche al rifiuto improvviso che rivela l’essenza di un’attenzione narcisista.
Interpretata da un’intensa Esmé Creed-Miles, Florence è il contraltare biografico e mitopoietico della prassi che caratterizza il lavoro di Vicky/Franky. Cura, assistenza e attenzione terapeutica si riflettono nella spinta amorevole ad accogliere una personalità sul bordo tra la vita e la morte.
Ma è proprio lei, tra pulsioni suicidali e l’edonismo distruttivo, a consentire a Franky il contatto con una rete relazionale più ricca, fuori dalla violenza della suburbia londinese e dentro il ventre di una maternità non biologica, fatta di ascolto e comprensione reciproca.
Sui volti, i gesti e la non irreggimentabilità dei corpi, Polack costruisce una dolorosa elegia di resistenza femminile, seguendo direttrici interne ed esterne non solo al cuore narrativo del film, ma ai confini dello stesso.
Charlotte Knight, sorella di Vicky nella vita, lo è anche nella finzione. L’islam è i il recinto che in Silver Haze regola i suoi gesti, i movimenti e le azioni. Spezzarlo significa riappropriarsi di uno spazio che la regista olandese descrive con piccole e fulgide eccedenze dello sguardo: il riflesso del proprio dolore in uno specchio, l’istinto di prendere un bicchiere di vino e di berlo mentre si trova al sicuro tra donne, il confronto con la rabbia di Vicky che assimila nonostante le apparenze.
Simmetrie invertite e disattese che generano altre causalità, come le due madri a confronto, quella naturale interpretata da Terrian Cousins, volto inciso nell’est londinese, di cui incarna il cinismo, ma anche il peso indicibile e Angela Bruce, che nel film è una donna con un tumore in fase terminale, il cui modus vivendi è l’accoglienza e la speranza come unica alternativa alla supremazia del dolore.
Tutte e quattro non sono le cicatrici, la depressione, l’hijab, la malattia, ma donne che resistono ad una rappresentazione della realtà dominata dalla rabbia e dal pregiudizio.
Ma si spinge oltre Polack, come aveva già fatto con l’idea di vittimizzazione in Dirty Dog.
Neanche Franky viene soggiogata da quell’ombra, con l’ipotesi che il superamento della rabbia sia percorribile a patto di raccontare se stessi e gli altri, immergendosi nell’esperienza ed eliminando ogni suggestione soggettiva.
Chi sia il responsabile di quell’incendio di cui è rimasta vittima, è difficile determinarlo anche per Franky, eppure indirizzare alla figura paterna l’origine di una colpa è l’unico sentimento che vorrebbe abitare, traducendolo in un gesto dalla carica eversiva e terroristica.
In quel frammento narrativo, quando Franky carica l’adrenalina di una Florence sempre sul bordo, fino a lanciare una bottiglia di vodka infuocata contro la finestra dove vive il padre, a raccoglierne i potenziali effetti è una bambina, la figlia più recente dell’uomo. Ma questa figura apparentemente minacciosa, rappresenta anche un’immagine allo specchio di Franky, che Polack fissa in un momento di rara potenza, dove la violenza può essere disinnescata solo dallo sguardo assoluto dell’infanzia.
Silver Haze diventa allora un film sull’elaborazione di un trauma che ne incorpora a poco a poco altri, come progressiva relativizzazione della propria centralità. Nel dolore condiviso, l’espiazione e la colpa sono vicoli ciechi, rispetto alla possibilità di costruire nuove geografie e nuovi legami, oltre le dittature del corpo e dello sguardo.
[Fotografie dell’articolo fornite da ufficio stampa Berlinale 2023]
Silver Haze di Sacha Polak (Olanda, GB – 2023, 123 min)
Interpreti: Vicky Knight, Esmé Creed-Miles, Charlotte Knight, Archie Brigden, Angela Bruce
Fotografia: Tibor Dingelstad
Montaggio: Lot Rossmark