sabato, Dicembre 21, 2024

Someone’s Watching Me! di John Carpenter: recensione

"Someone's watching me!" è il film dimenticato di John Carpenter. Diretto nel 1978 per la televisione poco prima di Halloween e trasmesso dalla NBC poco dopo il successo del primo capitolo dedicato alla saga di Michael Myers, è uno dei film più teorici, politici e femministi del regista americano, ma è soprattutto una riflessione ancora attuale sulla pervasività dello sguardo mediale che smembra corpi e vittime . L'approfondimento

Il 1978 è un anno fondamentale nella carriera di John Carpenter, non solo per la consacrazione dovuta al successo di “Halloween”. Il regista di Carthage mette a punto un numero considerevole di progetti che in forma diseguale contengono già aspetti e intuizioni della sua filmografia a venire.

Ad eccezione della sceneggiatura per “Gli Occhi di Laura Mars”, sono tutte produzioni televisive destinate all’oblio nell’arco di pochi mesi. Solo il biopic dedicato ad Elvis Presley sarà distribuito anche nelle sale cinematografiche in una versione notevolmente scorciata. “Zuma Beach”, diretto da Lee H. Katzin e “Someone’s Watching Me!” scompariranno dai palinsesti statunitensi, fino a riemergere a distanza di diversi anni in quelli europei.

Il secondo, scritto e diretto da Carpenter per la NBC, sarà trasmesso in Italia dalla RAI nei primi anni novanta, per lo più in collocazione notturna e con i titoli di “Pericolo in agguato” e “Procedura Ossessiva”.

Girato da Carpenter poco prima di cominciare a lavorare su “Halloween” e con il titolo provvisorio, ma ballardianamente centrato di “High-rise“, fu trasmesso il mese successivo rispetto al primo effettivo successo del regista americano.

Il grande tubo ottico di un telescopio che occupa la prima inquadratura del film, suggerisce sin da subito un approccio in totale controtendenza rispetto alla cornice televisiva coeva. Questa viene forzata con prospettive grandangolari spintissime, oppure al contrario, mediante un’organizzazione dello spazio che inghiotte i corpi, per dimensione, estensione e possibilità. Rispetto alle sperimentazioni di Alan Clarke dentro la morfologia del set televisivo, Carpenter applica a quei confini un occhio panoramico ed eminentemente cinematografico grazie alle ottiche Panavision, nonostante gli venga imposto il formato 1.33:1. Tant’è, il recente restauro in 2k proposto da alcune label statunitensi, consente di vedere il film anche nella forma 1.85:1, senza risultare una scelta arbitraria.

Lo sguardo disincarnato del dispositivo consente a Carpenter di lavorare sull’onniscenza del controllo, investendo lo spazio di caratteristiche autosufficienti. C’è già il futuro della televisione modellata sull’architettura dei reality, in largo anticipo rispetto ad un film come “Sliver”, che deve molto a questo di Carpenter.

Nel prologo, la frammentazione di una tecnologia ormai superata traccia la decostruzione dello stesso dispositivo filmico: un telefono che squilla, un registratore a bobine improvvisamente attivato, l’occhio telescopico che scandaglia la parete di un grande condominio, una voce oscura e disumanizzata mentre minaccia una donna chiamata Elizabeth.

Su queste premesse si sviluppano i titoli di testa, con un reticolo grafico molto simile alle geometrie create da Saul Bass per l’Hitchcock di “Intrigo Internazionale”. Lo scheletro sintetico dell’alveare di vetro accomuna i due film, ma le variazioni su motivi e figurazioni Hitckockiane qui assumono un altro valore nella scomposizione dell’apparato, più vicino ad un saggio sull’appropriazione della soggettiva, che eccede la riflessione metacinematografica strictu sensu per discutere la posizione dello spettatore all’interno del discorso filmico. In particolare è il film di Carpenter più esplicitamente legato alla ridefinizione dei ruoli di genere, aspetto che attraversa tutta la sua filmografia con modalità diverse e che qui rimette costantemente in scena il film secondo alcune intuizioni del femminismo radicale.

Più di Laurie Strode e del processo di mascolinizzazione che dissolve progressivamente lo spazio assegnato alla vittima, complicando le direttrici binarie dello sguardo omicida che crea e distrugge l’esistente, la protagonista di “Someone’s Watching me!” interpretata da Lauren Hutton, supera l’essenza della Final Girl definita da Carol Clover nel suo saggio sul cinema slasher, con l’intenzione di descrivere una figura in grado di dominare la complessità del reale, senza la mediazione organizzata dallo sguardo maschile. Nella lotta fino all’ultimo punto di vista il film incorpora una riflessione sul sabotaggio della messa in scena associata all’ossessione del controllo.

Impalpabile e diffuso come Michael Myers, il Voyeur che pedina Leigh Michaels è ugualmente degenderizzato. Al posto di una maschera che raffredda le possibilità di identificazione, c’è un occhio pervasivo che a poco a poco si confonde con lo spazio empirico del colossale condominio. La realtà già tecnologizzata di una domotica a venire, derealizza l’attività soggettiva modulando luci, temperatura ambientale, vivibilità degli appartamenti, grazie alla centralizzazione informatica dell’intera struttura. Lo spaesamento di Leigh è un continuo riassestamento della dinamica binaria campo/controcampo che Hitchcock offre allo spettatore, incorporando gli schermi nell’atto di guardare attraverso una finestra.

L’occhio telescopico rappresentato all’inizio si muove quindi da un cinema che ha messo ulteriormente in discussione quell’architettura, a partire dai dispositivi mortali e disincarnati che investono il quotidiano con un surplus di paranoia nei film di Bogdanovich, Coppola, Pakula dal 1968 al 1974.

Da li vengono estremizzate le possibilità della visione parallattica, dove la permanenza di un oggetto nel campo visivo, cambia in base alla posizione dell’osservatore. Per tutto il film lo sguardo omicida non ha una collocazione precisa, anche quando si presume di averne individuato la posizione nelle torri di vetro antistanti. La sua azione è affidata a mezzi di comunicazione e dispositivi di controllo tanto pervasivi da non aver perso sostanza e attualità nel discorso contemporaneo sui sistemi di sorveglianza che regolano l’esistenza urbana, poco importa che la superficie estetica di alcuni oggetti sia circoscritta a quel momento storico.

Carpenter procede per sottrazione, rilevando inquietudini sottili in quelle interfacce che prolungheranno le nostre attività psicomotorie. Non è quindi indirizzabile l’occhio della morte. Sconnesso com’è da qualsiasi collocazione soggettiva si sposta nomadicamente dalla volontà organizzativa del regista, alla posizione attiva dello spettatore, fino ai dispositivi che ormai possono contare sulla propria architettura tecnica con un’intelligenza autonoma. La temporalità delle stanze vuote che alla fine di Halloween assorbe la presenza di Michael in uno spazio dove l’essenza del male diventa improvvisamente transtorica, è il motore principale di “Someone’s Watching me!”.

I corridoi e le stanze d’albergo, i parcheggi sotterranei, gli scorci notturni di Los Angeles, i condotti dell’aria, elementi che fino a “The Ward” hanno caratterizzato l’esoscheletro di altri luoghi nel cinema di Carpenter, costruiscono lo sguardo invisibile e sempre presente dell’intero film, uno dei più astratti e teorici nella filmografia dell’autore di Carthage, eppure ancora capace di raccontare la frammentazione visuale del contemporaneo.

Carpenter costruisce sin dall’inizio una dimensione palindroma dello sguardo, attivando riflessi, improvvise amplificazioni e altrettante sovversioni della direzione appena mostrata.
Leigh occupa un tassello di Arkham Tower, città condominiale il cui nome contiene un esplicito riferimento lovecraftiano, che in forme diverse tornerà nella citazione di uno dei luoghi di “The Fog” e come ispirazione nella mappatura impossibile di Hobb’s End ne “Il seme della Follia”.

La dimensione comunitaria che nasconde oscurità rituali indicibili nell’universo dello scrittore di Providence è riletta attraverso l’ecosistema dei grandi complessi abitativi, che sfruttano la tecnologia più avanzata come diaframma opacizzato in grado di nascondere i pericoli di una megalopoli tentacolare. Ballard, sicuramente, ma ricondotto entro un orizzonte scopico, dove la decostruzione del dispositivo lascia tracce tangibili nell’estetica ambientale, negli oggetti quotidiani, nell’invasione dei dispositivi in ambito domestico, nell’esfoliazione di un set dentro l’altro.

Insieme a Leigh, Carpenter entra nello studio televisivo dove lavora, per mostrarci la moltiplicazione di schermi attraverso i quali la sua attività registica costruisce il punto di vista. Ne esalta la distanza, azzerando quasi il suono che proviene dallo studio e portando in primo piano la comunicazione funzionale con i cameramen. A differenza del Cinema, separata dai corpi e dalle maestranze, coordina e ricostruisce uno spazio narrativo, dove il teatro della diretta viene frammentato da un occhio che può dar vita o uccidere la collocazione di un dettaglio, operando una serie di suture sull’emersione dell’imprevisto.

Leigh subisce lo stesso tipo di manipolazione esterna nell’arena del suo appartamento e nello spazio determinato da un Voyeur senza corpo né identità. Descritta come una donna che sceglie ogni momento del suo destino, tanto da opporsi con forza alle narrazioni maschili sul posto di lavoro e nella dimensione del desiderio, subisce la pressione più subdola della violenza predatoria con le frequenti interferenze che bucano la superficie securitaria della tecnologia.

Carpenter inserisce una serie di immagini shock, tra cui quella di un’ombra che improvvisamente attraversa l’appartamento alle spalle di Leigh, la cui funzione può essere scambiata con quella di un qualsiasi jump-scare, ma che al contrario introduce un difetto nel sistema, per rivelare l’architettura patriarcale delle società urbanizzate, sospese tra controllo e violenza. Un sottile ma insistito cambio di paradigma che sarà alla base di numerosi Home Invasion.

La paranoia che determina e separa l’esterno dall’ultimo presidio di resistenza, informa l’organizzazione dello spazio in quasi tutti i film di Carpenter, ma “Someone’s Watching Me!” Inverte questa polarità, partendo dalla supposta sicurezza della città presidiata e mettendo in discussione veridicità e credibilità della vittima potenziale. La dinamica è simile a quella che annichilisce sguardo e testimonianze ne “L’ uomo invisibile” di Leigh Whannell e soprattutto in “Watcher”, il piccolo film di Chloe Okumo, non a caso uscito poco dopo il rilancio statunitense del film dimenticato di Carpenter per il mercato home entertainment a larga diffusione.
La regista americana, come Carpenter, desautora il Voyeur dalla posizione identitaria, per ricostruirne la presenza attraverso lo sguardo complessivo di un sistema sociale e mediale che perpetra lo stesso smembramento autoptico di corpi e vittime.

Il veicolo ideologico che sottende la costruzione linguistica del testo è per Carpenter rappresentato dalla costruzione di mondi separati dal caos, la cui riscrittura è l’unico gesto in grado di salvare l’esistente dall’antimateria. Il Salvatore che interrompe il corso dell’apocalisse ne “Il signore del Male” è una donna che riscrive la Storia del Cristianesimo e trapassa la curvatura del tempo. In “Someone’s Watching Me!” la lotta per conquistare l’altro lato dello specchio è combattuta sul piano di uno spazio e di un luogo del senso fondamentali per sottrarsi dal destino finale della vittima. L’incorporeità dell’occhio che può uccidere, si materializza come un fantasma quando avviene uno scambio effettivo del punto di vista. Leigh riesce improvvisamente a vedersi, ad assumere controllo e posizione produttiva di quell’immagine che vorrebbe schiacciarla nell’immanenza dell’inquadratura.

Come molti altri personaggi carpenteriani, Leigh sfugge continuamente al nichilismo del potere, assumendosi il compito di svelarne l’origine e camminando sul bordo, sui margini della cornice, sul confine estremo dello schermo. La sequenza dove ritorna nel suo appartamento, quando potrebbe evitare di farlo, è certamente il tentativo estremo di determinare il proprio destino in ogni momento, ma anche la volontà di oltrepassare definitivamente la membrana dello schermo per rivelarne il limite. La lotta nel vuoto, sull’orlo di un balcone all’ultimo piano è la strenua riassunzione del punto di vista da una parte o dall’altra dell’occhio. Centrare la propria posizione significa rimanere dall’altra parte dello schermo dopo averlo sfondato per mostrare l’abisso che nasconde.

Il Cinema, come luogo del possibile ancora in grado di problematizzare l’origine e la costruzione di un’immagine, rimane un presidio apolide rispetto al rilancio delle dinamiche di potere sottese dai nuovi media. La finestra a precipizio dell’Arkham Tower è come gli specchi, i vicoli a doppio fondo, le città nella città, le banlieue separate dal mondo civile, i manifesti strappati, gli occhiali che svelano l’invisibile. Cicatrici ancora fresche che aprono la porta sui mondi nascosti da uno schermo, dove improvvisamente possiamo trovarci dietro e davanti le proprie maschere.

Someone’s Watching Me! di John Carpenter (USA 1978, 97 min)
Sceneggiatura: John Carpenter
Interpreti: Lauren Hutton, David Birney, Adrienne Barbeau
Musica: Harry Sukman
Fotografia: Robert B. Hauser
Montaggio: Jerry Taylor

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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