Eva Liberdad aveva già raccontato nel 2021 il mondo di Angela, giovane donna ipoudente, con un cortometraggio di diciotto minuti interpretato da Miriam Garlo e incentrato sulla vita con il marito, durante l’attesa della primogenitura.
Come accade per molte opere prime, Sorda è l’espansione drammaturgica di quel corto da cui recupera la protagonista principale e lo scenario rurale in cui vive la coppia.
Esamina quindi da vicino il ménage tra una persona ipoacusica e l’altra udente, raccontando con intima semplicità una sinergia affettiva che muta rispetto al contesto e alle due microsocietà sottese.
L’acutizzarsi delle differenze anche all’interno di uno spazio inclusivo arriva con la maternità di Angela e con l’ipotesi che i timori dei futuri genitori possano essere asimmetrici.
L’attenzione e la delicatezza che Liberdad dimostra rispetto alla capacità degli attori di dar vita con i gesti e le azioni ad un profondo conflitto interiore, non indirizza mai con certezza la definizione di un desiderio, al contrario sono le reciproche percezioni soggettive a caricare di senso speranze e disillusioni.
Non è quindi possibile dire che Angela speri di dare alla luce un bimbo ipoudente e che Héctor preghi perché accada il contrario, perché è l’esperienza con le loro comunità di riferimento, soprattutto quando si contaminano, a raccontare una necessaria esigenza di spazio e legittimazione reciproca.
I personaggi vengono raccontati durante le cene con gli amici e gli incontri di famiglia, nello spazio sicuro della casa e probabilmente reso tale dalla cura di Héctor. Cambiano gradatamente le prospettive quando una commistione ricercata tra differenze, si trasforma nell’immersione all’interno di due comunità che non sempre riescono a sfiorarsi.
Angela in mezzo agli amici sordi ed Héctor che accoglie un gruppo di vecchi conoscenti poco attenti alla lingua dei segni, sono i due motivi visuali opposti entro i quali viene coltivato un disagio reciproco fino a quel punto indicibile, ma evidenziato dall’attenzione della regista per i volti, lo scrutarsi da piccole distanze, i comportamenti minimi e soprattutto per il notevole talento di Miriam Garlo, la cui duttilità non è semplicemente favorita dalla stessa condizione del suo personaggio, ma dalla capacità di trasformare in un’acuta descrizione fisica, la dimensione aurale.
Pur nella sua apparente semplicità, Sorda è un film che evidenzia le difficoltà di stabilire una connessione tra gesto e pensiero, all’interno di una società immersa nel superfluo della saturazione acustica e nell’eccessivo parlarsi addosso dell’esperienza collettiva, anche quella più conviviale.
Diventa quindi a poco a poco un esempio toccante di cinema sensoriale, dove la parola è quasi sempre veicolo di fraintendimenti e la relazione tra gesto e pensiero, una codifica difficile quando viene a mancare la predisposizione all’ascolto.
Questa disattenzione a un certo punto può diventare reciproca, quando le diverse zone di sicurezza proteggono l’identità di un mondo rispetto all’altro.
Questione squisitamente cinematografica proprio nella definizione di quel rapporto difficile tra visualizzazione del gesto e peso della parola, che nel film di Liberdad trova un semplice, ma miracoloso equilibrio basato sulla rinuncia programmatica ad indirizzare significati ed emozioni in modo univoco.
Sin dall’incipit, il rumore delle cose nella percezione di Angela, vive nell’attenzione ai riflessi, ai dettagli marginali e periferici, e in quell’oasi acquatica dove in solitudine abbraccia e protegge il corpo del marito, il suono dell’acqua diventa visibile attraverso una rifrazione sulla roccia.
Tutta la sequenza del parto è un drammatico e bellissimo momento di partecipazione collettiva, dove le paure reciproche di due sistemi di comunicazione, cercano un modo per seguire il linguaggio del corpo.
Eppure l’estrema sofferenza del dare alla luce, diventa a poco a poco per Angela una lotta con il pianto e con il riso della piccola Maya, che ancora non riesce ad accordarsi con altre strade sensoriali, le stesse per esempio attraverso cui la donna sente ed esprime fisicamente il battito della musica, più di qualsiasi altra persona.
L’improvviso scarto che accompagna l’ultima parte del film fino alla conclusione, dove il suono viene sostituito dalla percezione auditiva di Angela, immergendo così lo spettatore in una profondità abissale, è un semplice quanto potente slittamento dei sensi che ci invita a ricodificare anche il nostro stesso modo di stare in sala, rispetto al frequente dopaggio aggressivo dell’ingegneria sonora, approntata talvolta per sostituire una relazione dialettica con le immagini.
Ascoltare come ascolta Angela, anche quando indossa e toglie nello spazio di pochi minuti gli auricolari bluetooth che saturano il segnale acustico fino alla distorsione, sfida il nostro stesso grado di sostenibilità rispetto alle convenzioni aurali e ci consente di comprendere lo spazio visuale e quello sonoro come due regni simbolici interdipendenti.
Improvvisamente immersi in una potenziale solitudine, veniamo nuovamente presi per mano da Angela e dalla sua capacità di rimappare l’udito attraverso altre vie e altri sensi, dove l’ascolto arriva da dimensioni alternative.
Eva Liberdad con estrema semplicità e grande rigore, riesce a raccontare uno spazio della differenza come un processo in divenire all’interno di più architetture sociali e identitarie.