Un aspetto intrigante del film più maltrattato tra quelli diretti da M. Night Shyamalan era il contrasto tra la sintesi minimale dell’esperienza performativa esperita da Jaden Smith e l’ingombrante apparato produttivo e digitale allestito per i movimenti di un film intimamente cameristico. Il corpo in quel caso aveva il compito di evocare il visibile dall’invisibile, come una grande palpebra nuda.
Gli ultimi due film del cineasta di origini indiane e sopratutto questo appena uscito, si concentrano proprio su questo aspetto, facendosi volutamente piccoli e scegliendo la strada low budget nella “casa” di Jason Blum. Più di The Visit, Split è evidentemente un film anche sul corpo performativo come luogo dell’incontro tra spazio e visione. Se The Visit incorporava lo sguardo dei dispositivi digitali (webcam, tablet, smartphone) per una cinica irrisione delle loro funzioni, spesso disinnescandoli oppure svelandone infedeltà e incongruenza attraverso geniali rovesciamenti di prospettiva, qui il volto, i gesti e il corpo di James McAvoy sono luoghi mutanti del pensiero e della parola.
Kevin è attraversato e attraversante, proprio mediante le personalità multiple che gli consentono di materializzare un mondo interiore sempre più complesso dove il pensiero diventa esso stesso carne. La motilità incredibile della “bestia” è un occhio del corpo dove vedere ed esser visti sono un processo reversibile. Kevin è il visibile ed è a suo volta dentro il visibile. Kevin è l’invisibile e materializza ciò che non è possibile scorgere della dimensione psichica.
L’Orda, ovvero l’insieme delle caratteristiche invisibili di Kevin, rifiuta nettamente la prospettiva cognitiva della dottoressa Karen Fletcher (Betty Buckley) ferma semplicemente al fenomeno, mentre si arresta abbacinato davanti ai segni e alle cicatrici sul corpo di Casey (Anya Taylor-Joy) dove la visione finalmente si attua.
Sono segni, quelli del cinema di Shyamalan, che annunciano l’invisibile ma non lo mostrano, sono in realtà segnali d’assenza, “Visibilità Imminente”, per prendere in prestito una definizione di Merlau-Ponty.
Ecco allora che in virtù di questa imminenza, questa continua sospensione nell’accadimento (The Happening) che Split stesso torna a percorrere il linguaggio delle fiabe, quello del fumetto e dell’universo Marvel, quello della cultura orientale e dell’Haiku Zen, fino a giocare con le sue stesse origini con una modalità che potrebbe essere mille cose: una sonora presa per i fondelli nei confronti di chi per anni ha sopravvalutato la struttura del racconto nel cinema di Shyamalan per le ragioni sbagliate, tanto da sottovalutare la profondità di visione subito dopo “Il sesto senso”; deturnamenti e “twists” quasi sempre accecano, non svelano e Shyamalan lo sa bene.
Chi si è preoccupato del “come va a finire?” si è dimenticato la forza auto-generativa di “Lady In the Water“, forse il film più significativo di Shyamalan in questo senso, qui evocato nel gioco con la dimensione seriale che guarda indietro e allo stesso tempo avanti, con quel continua… che non allude a nient’altro se non ai puntini di sospensione.