I piedi nudi di Natalia Belitski sono la prima cosa che vediamo. Un erotismo trattenuto da una luce di qualità ospedaliera e dall’immobilità di un corpo disteso la cui unica nota di colore sono i guanti gialli da cucina fissati sulle mani. La voce di Julie, il personaggio interpretato dall’attrice apolide tedesca, rivela da subito il suo rapporto con il fuoco nel ricordo infantile di un formicaio incendiato. Anche di fronte alla distruzione, l’operosità delle formiche rimane tale, quasi per indicare nessi causali già determinati dal funzionamento meccanico della natura. Più che riferirsi a questa concezione antica quanto il pensiero di Democrito, Julie decide di abitare un grado di osservazione che dall’infinitamente piccolo, dialoga con un ordine sistemico più grande, mettendone in discussione gli elementi fondativi: il primato delle relazioni.
Stare immobile è l’inazione che le consente, quasi paradossalmente, di spezzare la fissità della cornice, determinando il suo ruolo come agente imperturbabile del caos. L’unico movimento effettivo, è un’algida piromania che non partecipa mai alla formazione di un sentimento davvero incendiario, perché innesca l’imperativo della distruzione in un contesto che si muove autoritariamente, grazie ai meccanismi di produzione. Con la stessa freddezza del potere, Julie scatena una forza coincidente e opposta, l’unica in grado di scuoterne se non l’assetto, almeno la superficie.
La ri-costruzione del senso relega tutti i dropout nello spazio iperbarico di una clinica psichiatrica.
Fuori dalle regole, fuori dal mondo.
L’adagio di una cultura giustizialista, che emargina dalla vita pubblica il disturbo psichico, separa nettamente quei labili confini tra follia e normalità la cui con-fusione ha nutrito un ampio immaginario cinematografico, almeno da Anime in delirio in poi, indicando più volte aperture e spazi di libertà possibile. Per Elisa Mishto, regista nata a Reggio Emilia e residente da diversi anni a Berlino, il personaggio di Julie è il tramite per esercitare la cancellazione gestuale del “no future” entro l’ordine simbolico determinato dalla composizione dell’inquadratura, legata a simmetrie insistite dove sia possibile innestare esplosioni di improvvisa surrealtà.
L’incontro di Julie con Agnes, la giovane infermiera interpretata da Luisa-Celine Gaffron, volto noto e già attivo come la Belitski nella produzione televisiva tedesca, determina un passaggio di energie dallo spazio terapeutico a quello quotidiano. Agnes rifiuta la routine coniugale e soprattutto il ruolo di madre, definendo l’abiezione come rigetto progressivo di una minaccia interna/esterna ormai esorbitante rispetto alla sua stessa volontà.
Invece di declinare un topos ricorrente della letteratura, della teoretica e della narrazione femminista, indagando profondità tra organico e inorganico, la Mishto preferisce i toni più ravvicinati della commedia disfunzionale, elaborando la qualità del rapporto tra Agnes e la piccola figlia di tre anni attraverso l’inceppo delle funzioni quotidiane. Lo sguardo tremendo e indagatore della bimba, così come i suoi continui tentativi di sabotaggio, sembrano indicare quello spazio di libertà totalmente anarchico non ancora irregimentato dal sistema educativo. Nella distanza progressiva che Agnes stabilisce dal suo ruolo c’è in fondo il desiderio ludico di un ritorno all’infanzia, ponte costruito per connettersi ai giochi pericolosi di Julie.
“Stay Still” funziona bene nei continui contrasti tra l’ordinata fotografia pop di Francesco Di Giacomo e la rottura operata da personaggi di contorno eccedenti, come la figlia di Agnes, il folle interpretato da Giuseppe Battiston, la delirante Caroline (Kim Riedle), che dando fuoco ai propri capelli, commette un gesto nient’affatto gratuito, assorbendo al contrario quel desiderio di combustione che attraversa tutto il film.
Funziona meno quando alcune simmetrie tra segno e personaggio rischiano di indirizzare lo spazio interpretativo, segnalandone la portata simbolica. I guanti di Julie che la separano da un vero e proprio coinvolgimento tattile con la realtà dei corpi, la cornice del reale che diventa contenitore esplicito del desiderio come nella sequenza della piscina svuotata, la relazione non sempre dinamica con il lavoro sulle musiche curato da Sascha Ring, la cui presenza assolve spesso una funzione additiva o semplicemente ritmica, come accade in molto cinema indipendente.
Rimane al centro la notevole interpretazione di Natalia Belitski, capace nei momenti migliori di sovrapporre l’immobilità del corpo e del volto alle possibilità mobili del desiderio, un’asimmetria che regola anche i travasi continui tra Julie e Agnes, giocati su dinamiche che riattivano continuamente i processi relazionali sospesi tra forza e fragilità; su questa tela bianca speriamo che Elisa Mishto possa continuare a sperimentare in futuro.