Sylvie Verheyde torna sulle tracce di Stella e prosegue nella costruzione di un’autofinzione permeabile dove elemento autobiografico e invenzione non prendono il sopravvento l’uno sull’altra, ma lasciano vivere i personaggi in una cornice aperta. I quattordici anni che separano i due film, non hanno la stessa cronologia nella vita di Stella Vlaminck e dal 1976 si passa al 1984, durante i mesi che precedono l’esame di maturità.
Il caffè di famiglia, le disfunzioni insanabili del nucleo originario, il mondo degli adulti irrimediabilmente compromesso, sono ancora al loro posto destinati a precipitare in caduta libera, ma Stella sembra averli neutralizzati con la forza che già caratterizzava il suo spirito libero durante i momenti più difficili della pre-adolescenza. C’è apparentemente meno dolore in Stella est amoreuse, per l’aderenza più stretta al percorso di educazione affettiva e all’impermanenza del sentimento amoroso, ma l’inquietudine descritta da Sylvie Verheyde nel primo film, torna con grande autenticità nella continua ricerca di un centro incarnata da Flavie Delangle, i cui sentimenti si plasmano sull’infestazione di luci e colori del Les Bains Douches, una delle discoteche più importanti della nightlife parigina degli anni ottanta, insieme a Le Palace.
Rispetto alla seconda, luogo di trasformazione per la giovane Rose in Une jeunesse dorée di Eva Ionesco, viene descritta dalla regista francese come spazio ad accesso collettivo, filtrato dalle regole del dress-code, ma ancora sottoposto alla partecipazione vitale del proletariato nel teatro estetico che ospitava ogni propaggine della cultura New Wave. Questa rimane un’allusione nella colonna sonora scelta per il film, mentre Stella collide con i suoi silenzi e lo sguardo avido di vita, contro qualsiasi forma di intellettualismo.
Proprio il rimando ai segni delle controculture, tra musica e pittura, annichilisce il desiderio, causa il crollo narcolettico, raffredda l’esplosione emozionale e non riesce mai ad adattarsi ai prolungati silenzi di Stella e a quella svagatezza che vive sempre entro il solco di una tradizione letteraria.
L’esperienza è agli antipodi rispetto a quella della Ionesco, nonostante le vitali e interessanti connessioni. Nel teatro creativo del dancehall che assimila fuga e rifugio in una dimensione artistica dalla quale per Rose sembra impossibile evadere, Stella si trova ad esercitare gli stessi gesti di rivolta, ma con un’ansia di libertà che imbocca un’altra direzione.
Stella non ha mentori, non subisce più l’influenza delle figure genitoriali e affronta la mutevolezza istantanea del sentimento amoroso con un istinto che le impedisce di adattarsi al teatro relazionale.
Lo stesso istinto che le ha consentito di sopravvivere alla sua famiglia e che non la intrappola nelle lusinghe degli anni ottanta.
Le scelte musicali indicano da una parte antinomie generazionali, senza cedere alle opposizioni binarie. Mentre sulla pista le luci al neon si materializzano sui suoni algidi di Fad Gadget, New Order, Visage senza stabilire pienamente una dimensione emotiva se non nel fascino della distanza tra corpo e gesto, sono altri i suoni a cui la Verheyde affida una qualità confessionale. Oltre ad Un autre monde dei Téléphone, dove la sorellanza si esprime come resistenza alla realtà del presente, c’è la ballata senile di un guerriero ferito come Bernard Lavilliers. 15e round accompagna il viaggio in macchina di Stella insieme al padre, ancora con il volto di Benjamin Biolay, con quelle liriche che diventano rispecchiamentio, appartenenza, incolmabile distanza, nel dialogo mai stato tra padre e figlia.
Del resto l’ellisse italiana che chiude il film in una cornice mnestica, investe la canzone popolare italiana di una qualità aurorale che diventa tutt’una con la leggerezza malinconica di un tempo instabile, fallace, consumato velocemente come qualsiasi parentesi estiva, eppure più vivo del teatro posturale sottolineato da una New Wave che non incide, rimanendo sullo sfondo.
Sylvie Verheyde disinnesca quindi i tratti tipici del racconto d’ambientazione, seguendo l’adesione incondizionata di un personaggio al respiro vitale dell’istante, immune dalla semantica del suo tempo. Stella è in effetti fuori posto, cerca segnali che non arrivano, vive nella dimensione ottica e illuminotecnica della discoteca, ma si stanca facilmente rispetto ai codici dell’apparenza. Senza parlare, ma con l’urgenza di stabilire un contatto, sonda continue reazioni sensoriali, tra la comunione collettiva della danza e la rivelazione amorosa, vissuta come gesto e presenza. Nel rifiuto di fornire qualsiasi spiegazione alla trasparenza del desiderio, preferisce vivere una continua Flâneurie.
Nel luogo della danza, delineato dalla logica predatoria maschile, Stella è una Flâneuse che ridisegna il proprio cammino, alla scoperta del proprio tempo. L’incertezza del domani che sospende il racconto, è in realtà ricerca della propria misura nell’irresistibile attrazione per tutto ciò che è fuori campo.
[Foto dell’articolo fornite da Davis & Co. Ufficio stampa – press kit France Odeon]
Stella Est amoreuse di Sylvie Verheyde (Francia 2022, 110 min)
Interpreti: Flavie Delangle, Marina Foïs, Benjamin Biolay
Sceneggiatura: Sylvie Verheyde, William Wayolle
Fotografia: Léo Hinstin
Montaggio: William Wayolle