Nello spazio ordinario non così diverso da quello di un tv-drama famigliare, Richard Glatzer e Wash Westmoreland limitano lo sguardo del loro ultimo film alla dimensione matriarcale di Alice (Julianne Moore), è un’emanazione soggettiva di tutto il mondo che ruota intorno alla vita della professoressa di linguistica e che come la superficie del nastro di Möbius, osserva se stesso attraverso la ripetizione di luoghi, gesti, parole, tanto che la memoria, registrata su un vecchio supporto analogico, subentra più volte come un’interferenza, breccia che ferisce momentaneamente un contenitore senza più passato né futuro.
“L’arte di perdere” di Elizabeth Bishop è la poesia che Alice citerà durante il suo intervento per l’associazione dei malati di Alzheimer nel momento centrale della sua malattia, quando ancora l’unica possibilità di vivere l’istante non ha assorbito il tempo del ricordo e quello del desiderio in un fotogramma bianco; un invito a vivere lo smarrimento come una possibilità.
Se la fotografia di Luc Montpellier per Away From Her di Sarah Polley bruciava gli oggetti e i colori rendendo percepibile la relazione tra memoria e ipovisione, Glatzer/Westmoreland chiudono lo spazio privato sui gesti e le azioni di Alice, isolandola dal contesto, non importa se si tratta di close-up, focali lunghe come quelle utilizzate per aumentare il suo spaesamento dopo una corsa in città, oppure lo studio sul primo piano che il film evidenzia in modo quasi scientifico dai primi colloqui con il neurologo; quello a cui puntano Glatzer/Westmoreland è proprio la cancellazione della dimensione drammaturgica televisiva, pur abitandola completamente, con una progressione narrativa raggelante e antiemotiva che entra in cortocircuito proprio in quel confronto tra Alice e il suo primo piano registrato sul notebook, immagine dal passato che vorrebbe regolare l’istante, semplice e potentissima nella sua mancanza di artisticità simbolica, l’esatto opposto della prigionia teatrale in cui Haneke costringe i suoi attori-cavia.
Still Alice è allora un piccolo film onestissimo che riesce, prodigiosamente, a confrontarsi con l’automatismo della vita quotidiana, sfalsando lentamente il rapporto tra oggetti e azioni, come nella poesia di Elizabeth Bishop, che è una semplice fenomenologia del quotidiano. In questo continuo recedere della realtà per favorire la straordinaria tenuta di Julianne Moore che assorbe il film con il suo talento performativo, c’è anche la capacità di trattenere e di “perdere” di Glatzer/Westmoreland, il cui sguardo si colloca saggiamente al di qua di qualsiasi manipolazione del sentimento.