Un rompicapo per definizione si può risolvere. Il suo stesso senso è nella risoluzione: essa deve essere perfetta, così che tutto trovi il proprio posto. Speculare al rompicapo è l’enigma. Un enigma non suggerisce una soluzione ma offre se stesso nella molteplicità delle risposte possibili, nessuna delle quali definitiva. Non può essere univoco, altrimenti non sarebbe un enigma. I rompicapo cinematografici sono sempre piaciuti, perché il pubblico si diverte a cercare di arrivare alla soluzione, e i social centuplicano i dibattiti e i tentativi di decriptazione . Recentissimo è il caso di Tenet, che ha portato a innumerevoli articoli e video intitolati “Ho risolto Tenet” o qualcosa del genere. Talvolta queste analisi si rivolgono però a film che non sono rompicapo da risolvere ma enigmi da cui lasciarsi affascinare e il tentativo di dare loro una risposta esatta finisce per impoverirli.
Si possono “risolvere” 2001: Odissea nello spazio, Stalker, Mulholland Drive? È il modo sbagliato di approcciarsi a un enigma. Non perché non si possano offrire delle letture, ma perché pretendere di darne una che sia l’unica vera significa ignorare che proprio nella coesistenza di innumerevoli possibili letture sta il valore del film-enigma. È un po’ quello che sta succedendo a Sto pensando di finirla qui, terzo film da regista di Charlie Kaufman (leggi l’intervista su Indie-eye)
Kaufman nasce come sceneggiatore, ed è uno di quegli sceneggiatori da considerare autore dei film che scrive tanto quanto i registi che li girano. Anzi, a guardarsi indietro oggi Essere John Malkovich e Se mi lasci ti cancello sembrano inserirsi meglio nella filmografia di Kaufman che in quelle di Spike Jonze e Michel Gondry. È proprio in virtù di questa continuità che dopo appena tre film diretti si può parlare con facilità dello stile e dei temi nel cinema di Kaufman: il rapporto con il proprio sé, la rappresentazione del mondo mentale, la confusione tra reale e finzionale, sono tra i principali argomenti del suo discorso filmico.
Dopo aver portato avanti questo discorso con cinque sceneggiature in sei anni, al suo esordio dietro la macchina da presa Kaufman tentò di condensarlo in un unico film, il titanico Synecdoche, New York, il cui fallimento commerciale lo aveva spinto verso un progetto più umile e forse anche per questo più riuscito, Anomalisa, dove assieme al co-regista Duke Johnson cercava (riuscendovi) di annullare la distanza tra lo spettatore e il personaggio portando i sensi del primo a coincidere con quelli del secondo.
Sto pensando di finirla qui sembra quasi collocarsi a metà strada tra Synecdoche, New York e Anomalisa. Dal primo mutua l’aspirazione all’universalità, dal secondo il tentativo di “immersività”. Una coppia in crisi affronta un lungo viaggio nella tormenta per incontrare i genitori di lui, ma più il tempo passa più la realtà attorno a loro si sfalda. Una realtà molteplice ed eterogenea, composta da frammenti che si accumulano senza un senso apparente, finché il finale non dà una ragione a questo groviglio.
Kaufman è Kaufman, e nonostante non gli manchino le capacità registiche per raccontare con le sole immagini, il suo esibizionismo intellettuale lo porta a un eccesso di verbalizzazione talvolta snervante. I lunghi dialoghi per parlare di tutto sono colmi di citazioni e allusioni culturali alte, e stavolta persino di furbeschi riferimenti pretestuosi a recenti polemiche. Certo ci si può chiedere il senso di una simile lamentela se si decide di guardare un film di Kaufman, essendo l’intellettualismo un tratto fondamentale del suo cinema. Ma se Kaufman è Kaufman, è Kaufman anche nelle cose migliori, per fortuna: Sto pensando di finirla qui riesce a gettare lo spettatore nella testa di un personaggio permettendogli di guardare e sentire con gli occhi della sua immaginazione al lavoro.
Siamo davanti, anzi dentro a una fantasia, e sebbene sia possibile che ogni sua componente abbia un senso preciso, mettersi ad analizzare ogni fotogramma per ricomporre un mosaico dalla catasta di tessere accumulate in ogni scena (come molti sembra stiano facendo) vuole dire confondere l’enigma con il rompicapo. Non che una volta arrivati alla fine sia difficile capire cosa abbiamo davvero guardato, ma il valore del film sta proprio nella forza perturbante delle incongruenze, capaci di restituire lo spazio di una mente nell’atto del fantasticare. Può essere interessante spiegare da dove derivino tutte le cose che sogniamo, ma il fascino del sogno sta nel suo non essere spiegabile mentre lo si sogna.
Se tutto questo vi fa pensare a David Lynch, avete ragione. Il paragone si è sprecato, ma è impossibile non notare come il procedimento di costruzione narrativo sia preso in prestito da Mulholland Drive. Di film onirici (non film sui sogni ma film strutturati come sogni) la storia del cinema abbonda sin dagli albori, ma Kaufman fa esattamente quello che ha fatto Lynch: comporre una storia con pezzetti che appaiono incongrui e la cui provenienza è mostrata solo in un secondo momento. Si potrebbe rimarcare che Lynch riesce a essere più inquietante e ironico, ma sarebbe un paragone fine a se stesso, che distrarrebbe dal buon lavoro fatto da Kaufman.
Charlie Kaufman si muove dunque in territori che gli sono ben noti, e Sto pensando di finirla qui è forse il perfetto vessillo del suo cinema. Più accessibile di Synecdoche, New York (se proprio non si vuole dire “più riuscito”), rispetto ad Anomalisa, il suo film migliore, rende maggiormente conto della grandigia delle sue intenzioni.
Quindi accanto alla spiccata capacità di giocare con i confini della finzione possiamo trovare anche quei difetti che abbiamo detto essere parte integrante della sua poetica. Prendere o lasciare. Ma se si decide di stare al gioco, quel che si può ottenere in cambio non è poco.