venerdì, Novembre 22, 2024

Submergence di Wim Wenders: I luoghi che ci plasmano e quelli che ci distruggono. La recensione

Immergersi significa perdere progressivamente contatto con ogni principio antropico. La forma si consuma, tanto da far coincidere morte e rinascita nel doppio movimento dell’inabissarsi e del riemergere dalle acque. Mircea Eliade assimilava l’immersione a quella totale rigenerazione che solo un ritorno al preformale può consentire, un significato simbolico e rituale che dal liquido amniotico della pre-esistenza si dirige verso la superficie, per ricreare quelle condizioni attraverso le quali la forma si è manifestata. Ri-emergere è quindi ripetere un gesto creazionale.

Soglie che nel cinema di Wim Wenders sono da sempre un viaggio fino all’inizio o alla fine dell’immagine e che negli ultimi film del regista tedesco, tornano come elementi di grande forza, per disattendere le regole formali del racconto.  Il movimento apparente nel tempo e nello spazio si verifica come attraversamento o improvviso arrestarsi al di là di quelle superfici che ne spezzano l’ordine e la simmetria.

Abbandonato momentaneamente il 3D articolatissimo tra i piani della visione di Ritorno alla Vita e quello che partiva dalla pittura di Cezanne per condurci in un abisso di pixel in Les beaux jours d’Aranjuez, Wenders mantiene al centro il maschile e il femminile come energia che genera e allo stesso tempo erode le funzioni del melodramma, nel rispecchiamento continuo tra due amanti mentre lottano per riconoscersi e vedersi nel vicolo cieco della distanza.

Così vicini, così lontani, Danny e James abitano spazi incongrui e osservano l’abisso dai due lati di un vetro, senza potersi toccare. Eppure riescono quasi a sfiorarsi con una fede mai sopita in quella ricerca empirica, anche della parola, da cui possono scaturire immagini potenziali. Esplorazione ostinata della luce e dell’ombra che duella sin dal primo contatto stabilito con l’immagine del mare. 
Non c’è niente di metaforico nell’inabissamento virtuale che la biomatematica interpretata da Alicia Vikander compie all’inizio del film, grazie ad un simulatore VR immersivo. L’occhio di Wenders replica quella stessa esperienza dello sguardo, estrema e impossibile per prossimità e distanza, quando ci mostra un close-up di “Der Mönch am Meer“, il dipinto su tela di Caspar David Friedrich che emerge dalla palpebra chiusa di James McAvoy, per materializzarsi nella luce che penetra lo spazio della sua prigionia.

Il titolo “Submergence” compare sull’immagine del monaco che osserva solitario lo scatenarsi delle forze naturali proprio da quel gioco di luci, mentre la qualità cromatica non sembra così distante dal lavoro fotografico di Benoit Debie che segue lo sguardo incantato di Danny, sospesa nel simulacro di un ambiente pressurizzato.

Il dipinto di Friedrich, oggetto di recenti sperimentazioni VR, viene contestualizzato un attimo dopo nella sua collocazione “naturale” alla Alte Nationalgalerie di Berlino, luogo che all’osservatore James serve come copertura per prendere accordi con i servizi segreti britannici per cui lavora. Tutta la sequenza è un viaggio intorno alle stanze del museo, dove le immagini osservate non sembrano stabilire una connessione intima con la flanerie pilotata dagli smartphone. James è un fruitore distratto, si serve degli stessi dispositivi utilizzati per incorporare le nuove audioguide e segue altre sollecitazioni; il testo sul telefono, la parola dei suoi superiori, fino a soffermarsi per qualche secondo in più sul “Piede dell’artista” di Adolph von Menzel, uno degli autoritratti non convenzionali del pittore tedesco, incredibile affermazione del punto di vista, ma anche attenzione estrema ai minimi dettagli del quotidiano.

Qualsiasi sia la relazione stabilita dalle due immagini su cui Wenders si sofferma, la sollecitazione ci consente di rileggere il testo più volte senza alcuna attribuzione metaforica esclusiva, perché la dimensione “romantica”, anche come aspirazione individuale e soggettiva, viene disattesa e sovvertita nelle sue caratteristiche Storiche e narrative, per rinascere, ancora viva e trasfigurata, dalla prassi esperienziale quotidiana ricombinata dall’anelito dello sguardo cinematografico ad attraversare le superfici.

L’interesse di Wenders per ciò che perdiamo dell’immagine, a causa di una sua declinazione paralizzante, da sempre assimila l’atto del guardare ad un “puro rimpianto” o alla fata morgana Handkiana, miraggio da cui è possibile farci avvolgere. Dalle sue polaroid fino ai nuovi scatti di paesaggio, Wenders ha sempre testimoniato una progressiva perdita di flagranza nella nostra relazione con il dispositivo. Una polaroid, ha detto in una recente intervista, tratteneva più immediatezza e tenerezza rispetto ai social network. La velocità dei nuovi dispositivi corrisponde quindi ad una perdita totale di intimità.

Nel luogo condiviso sulla costa normanna, Danny e James collocano il loro amore in uno spazio sospeso, per fissarlo sul bordo del tempo, come i resti del bunker della seconda guerra mondiale, eretto sulla spiaggia dalle truppe tedesche e che James tocca da vicino cercando un punto di vista simile a quello degli alleati uccisi all’esterno. Da quel limite, tra acqua e terra, gli ottomila chilometri che separano l’isola norvegese di Jan Mayen dalla città somala di Chisimaio diventano spazi incongrui e irraggiungibili, dove esterno e interno cambiano priorità e senso.

Lei vicina all’immersione estrema che le consentirà di raccogliere alcuni campioni di vita chimicamente generata nelle profondità, lui prigioniero di un gruppo di Jihādisti durante una missione sotto copertura come ingegnere idrico. Le privazioni della prigionia e l’abisso oscuro che genera vita, l’attrazione per la dissoluzione nel complesso ciclo creativo e l’anelito verso la luce che può condurre alla morte, asimmetrie continuamente riflesse altrove, nella traccia temporale ed episodica del tempo che trova conciliazione solo in quel dialogo combinatorio tra Wenders, i suoi personaggi e lo spettatore. 

Fuori rete e irraggiungibili, Danny e James non possono che affidarsi ad alcuni frammenti di poesia, alle immagini ricombinate dalla memoria, al sogno di quel bunker stavolta esplorato dall’interno, al fugace contatto con i camini vulcanici che liberano energia termale e producono il fenomeno della chemiosintesi batterica, dove la vita esiste anche senza luce. 
 
Diventa allora portentoso l’avvitamento percettivo che indirizza lo sguardo verso lo schermo, nel tentativo disperato di oltrepassarlo. I bombardamenti sulla spiaggia di Chisimaio, lo sguardo di Danny dall’oblò mentre l’occhio si allontana dal fondale marino, il dialogo silente e impossibile di James con l’orizzonte, in una posizione non dissimile da quella del monaco dipinto da Friedrich. 
Sono le storie raccontate dai luoghi, fortemente radicate nelle loro viscere o nei recessi più oscuri; spaziotempo che non ha niente di metaforico, come racconta lo stesso Wenders nel suo scritto “In Defense of Places”, ma che ha la capacità di plasmarci, di proteggerci oppure di distruggerci. 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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