domenica, Dicembre 22, 2024

Sweat di Magnus Von Horn – Selezione Ufficiale Cannes 2020: recensione

Sylwia Zajac (Magdalena Koleśnik) è una bella influencer che ha impostato la sua carriera su Instagram, aggregando più di seicentomila follower e puntando tutto sulla forma fisica. L'ambito è quello del fitness motivazionale, osservato attraverso le dinamiche di flusso che si stabiliscono nella relazione telepresente tra dispositivi e distorsione del tempo quotidiano. Quello di Sylwia è totalmente regolato al mantenimento di un alto livello reputazionale, dove qualsiasi micro-esperienza personale può essere cannibalizzata dal dialogo interattivo con gli utenti.

L’espressione dei sentimenti continua ad essere al centro del cinema di Magnus Von Horn. Emotività bloccate nell’aspro confronto tra ambiente sociale ed individui. Al secondo film, il regista di Göteborg torna in Polonia, patria d’elezione e luogo dove ha concluso gli studi, per lavorare sull’immagine di una Varsavia raggelata e occupata dalle forme, anche architettoniche, del mercato globale. Una città riconfigurata a partire dai centri commerciali, gli attici di vetro e metallo in periferia, le arterie stradali che connettono una mostruosa realtà urbana con i set allestiti per lo spettacolo dei social media.

Sylwia Zajac (Magdalena Koleśnik) è una bella influencer che ha impostato la sua carriera su Instagram, aggregando più di seicentomila follower e puntando tutto sulla forma fisica. L’ambito è quello del fitness motivazionale, osservato attraverso le dinamiche di flusso che si stabiliscono nella relazione telepresente tra dispositivi e distorsione del tempo quotidiano.

Quello di Sylwia è totalmente regolato al mantenimento di un alto livello reputazionale, dove qualsiasi micro-esperienza personale può essere cannibalizzata dal dialogo interattivo con gli utenti.

Il complesso bilanciamento tra necessità interiori e presenza condivisa viene situato da Von Horn al centro di quella cultura “confessionale” che dall’esplosione dei reality ha dislocato i set potenziali in casa di ciascuno, attraverso la rete condivisa dei social network. Il protagonista di “The Here After” tornava nell’habitat famigliare, un guscio ancestrale e ostile che a ritroso spiegava la formazione criminale come conseguenza di un mondo maschile dove la sopraffazione regolava tutti i rapporti.

Sylwia è già isolata in una bolla virtuale autocostruita, incollata alla timeline del videodiario vive un tempo costantemente accelerato ed emergenziale, sottraendo la propria presenza corporea ad un’immagine la cui centralità è basata, paradossalmente, sulla prestazione fisica.

Dov’è Sylwia, in quale frammento temporale? Von Horn taglia sapientemente fuori gli schermi, molto spesso osservati marginalmente, come parte di un’azione riflessa e completamente incorporati nello spazio quotidiano. Preferisce pedinare la giovane donna nei rituali pubblici, nell’isolamento forzato dentro il proprio appartamento, nei viaggi in macchina prima di una convention.

Nel movimento apparente del tempo professionale, Sylwia si rivolge ad un pubblico senza identità mentre condivide, in abisso, la propria immagine allo specchio.

L’unico volto che dalla rete deflagra nello spazio vitale è quello di Rysiek.  Follower che diventa stalker, aspetta la giovane influencer sotto casa, tira fuori il cazzo per masturbarsi nell’abitacolo della macchina, si scusa condividendo un video, piange disperato della propria immagine repulsiva. La solitudine emerge come cortocircuito flagrante tra potenziale ipervisibilità ed estrema invisibilità.

Con un incedere sottile e una poetica del gesto che era ben chiara anche nel film precedente, Von Horn elabora un’immagine distante che non imbocca mai la strada del giudizio, tanto da riuscire ad elaborare un’empatia naturale e conseguente con i personaggi apparentemente più mostruosi, attraverso una percezione esterna che li inquadra in modo ancora più orribile.

Più violenta di Rysiek è la famiglia materna di Sylwia, delegittimante e capace di minimizzare i pericoli di un grave abuso.

Mentre la figura dello stalker sembra coincidere sempre di più con quella di una persona malata e potenzialmente pericolosa, il distacco emotivo di Sylwia da qualsiasi contatto erotico, esplode nel confronto con l’assistente performer che la segue nelle convention, maschio alpha apparentemente premuroso.

Von Horn stratifica la dinamica dello stupro annunciato e colloca Sylwia in una posizione complessa. Il rifiuto, o ancora meglio, il diritto al rifiuto, genera in ogni caso violenza e il massacro ai danni di Rysiek sarà sovrapposto ad un’esibizione di potenza sessuale da parte del performer, la cui bestialità si rivelerà capace di concretizzare l’essenza più oscura e violenta della mascolinità.

É un sorprendente rovesciamento di attese, che disinnesca l’etica telepresente per eccellenza, quella della cultura penale, del mostro da crocifiggere, del processo in diretta senza processo.

Rysiek, soggetto perfetto per la criminologia mediale, dopo il brutale pestaggio è una tragica e dolente maschera di sangue; essenza palpabile e brutale della violenza subita. La sua esclusione dal mondo diventa evidente nella rappresentazione grafica del dolore e della sofferenza, segno vivente che consente a Sylwia di leggere il sapore e il colore della propria insanabile solitudine.

Ancora una volta Von Horn si avvicina a figure sul bordo, rifiutate da un sistema sociale che dalla famiglia al regime della comunicazione, produce tutti i presupposti dell’abuso.

La continua assimilazione di Sylwia alle dinamiche della rappresentazione sembra allora senza alcuna possibilità di uscire dal sistema di flusso, anche dopo un’esperienza così traumatica. Durante l’attesa ospitata televisiva che conclude il film, i conduttori costringono l’influencer a spettacolarizzare il proprio dolore rilanciando tutti i meccanismi della comunicazione confessionale. Nella parte dei giudici dell’altrui morale, i conduttori attivano il riconoscimento di Sylwia come persona, entro i parametri della rappresentazione mediale. La confessione non squarcia il velo di maya, ma al contrario segue tutti quei vincoli, tecnici, socioculturali ed estetici, dell’ambiente di riferimento. La rivelazione confessionale, nuova disciplina attoriale, salda la palpebra all’occhio e rimane sempre al di qua di una distinzione possibile e trasparente tra vero e falso.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

ARTICOLI SIMILI

Voto

IN SINTESI

Sylwia Zajac (Magdalena Koleśnik) è una bella influencer che ha impostato la sua carriera su Instagram, aggregando più di seicentomila follower e puntando tutto sulla forma fisica. L'ambito è quello del fitness motivazionale, osservato attraverso le dinamiche di flusso che si stabiliscono nella relazione telepresente tra dispositivi e distorsione del tempo quotidiano. Quello di Sylwia è totalmente regolato al mantenimento di un alto livello reputazionale, dove qualsiasi micro-esperienza personale può essere cannibalizzata dal dialogo interattivo con gli utenti.

CINEMA UCRAINO

Cinema Ucrainospot_img

INDIE-EYE SU YOUTUBE

Indie-eye Su Youtubespot_img

FESTIVAL

ECONTENT AWARD 2015

spot_img
Sylwia Zajac (Magdalena Koleśnik) è una bella influencer che ha impostato la sua carriera su Instagram, aggregando più di seicentomila follower e puntando tutto sulla forma fisica. L'ambito è quello del fitness motivazionale, osservato attraverso le dinamiche di flusso che si stabiliscono nella relazione telepresente tra dispositivi e distorsione del tempo quotidiano. Quello di Sylwia è totalmente regolato al mantenimento di un alto livello reputazionale, dove qualsiasi micro-esperienza personale può essere cannibalizzata dal dialogo interattivo con gli utenti.Sweat di Magnus Von Horn - Selezione Ufficiale Cannes 2020: recensione