È una relazione frequente quella tra i cineasti iraniani e l’abitacolo di un taxi come occhio in movimento che esclude e allo stesso tempo include la morfologia della città; scambio continuo tra lo sguardo di un cinema da camera puntato verso se stesso e la mutazione soggettiva del racconto.
Non ci sono solamente i veicoli di Kiarostami fino al radicalismo minimale di “Ten”, ma anche Rakhshan Banietemad con i suoi Tales, l’ultimo dei quali viene confinato a bordo di un taxi, per poi liberarsi nuovamente in una riflessione metalinguistica; oppure il viaggio più tradizionale del tassista Youness nel recente Emrooz di Reza Mirkarimi, di cui Panahi a un certo punto sembra farne una parodia divertita e nichilista, perchè anche “Taxi” non è un film, ma il resoconto di una condizione di cattività dello sguardo assimilato alla funzione meccanica dei dispositivi digitali e allo stesso tempo l’irrisione di tutte le convenzioni che ci consentono di delimitare lo spazio occupato dalla figura dell’autore.
Non è semplicemente l’assenza di crediti e l’auto-spossessamento di Jafar Panahi dal ruolo di Metteur en scène quanto il continuo assestamento del punto di vista nel separare l’esterno dall’interno, in un corto circuito furibondo tra simulazione e realtà, imprevisto e scelta, riflessione sull’immagine e feroce parodia del suo statuto.
La prima messa in abisso è il gesto di assestamento della videocamera a bordo del taxi da parte di uno dei primi due passeggeri, “è un dispositivo antifurto”, dirà l’uomo seduto sul sedile anteriore alla donna accomodata sul retro, occasione per innescare una conversazione sulla legge e la pena capitale, sulla rettitudine e sulla difficoltà di vivere a Teheran, così da rivelare i confini di uno spazio privato entro il quale si racconta quello pubblico e infilmabile.
La strada che entra casualmente dal lunotto o dall’apertura dei finestrini, grazie agli interlocutori che si succedono a bordo e al punto di vista di Jafar Panahi collocato alla guida del veicolo, filtro autoriale chiarissimo, segnalato da tutti i movimenti di controllo della microcamera manovrata con agilità insieme ai comandi principali della macchina, ma anche regia interrotta dal flusso, vanificata da punti di vista in contrasto, come quello della nipote che equipaggiata con una piccola fotocamera digitale, cerca di realizzare il suo film per la scuola, ricucendo qualsiasi strappo della realtà secondo le indicazioni ricevute dagli insegnanti, non così diverse da quelle della Repubblica Islamica sulle caratteristiche che devono essere parte costitutiva di un film per imboccare la via di una sicura distribuzione.
Del viaggio come movimento cinematico primario “Taxi” perde tutta la dimensione retorica, giocando con i simboli di un cinema allegorico preso a colpi d’accetta, basta pensare all’episodio dei pesci rossi che finiscono sul tappetino della macchina, o alla teatralizzazione del tragico con il moribondo improvvisamente caricato sul taxi dopo un investimento accidentale, con quella corsa verso l’ospedale che sembra la parodia di quel cinema sociale e “solidale” accettato dal regime.
Nell’impossibilità di scegliere il cinema che vorrebbe fare, Jafar Panahi non può far altro che “girare a vuoto”, disincarnare l’occhio dalla volontà autoriale oppure seguire le tracce di una poetica nazionale data per acquisita e sabotarla.
Cos’è in fondo quella messa in scena distruttiva che conclude il film se non la coincidenza tra il massimo dell’artificio e l’assoluta casualità del cinema delle origini, la regione centrale dell’occhio e il suo disinnesco?