Una delle bombe ad orologeria armate nel cuore del romanzo borghese è la sostituzione della centralità di personaggi ed eventi con il respiro, la lingua e il ritmo della città. Un processo che va di pari passo con la rivoluzione estetica modernista e che proprio dal contesto urbano degli anni trenta dello scorso secolo, ha desunto la frammentazione strutturale e caotica che caratterizzerà nuove prospettive multiple di rappresentazione del reale.
Il regista coreano Sohn Hyun-lok ha ben presente quel cinema che abbandona i personaggi nelle fauci dello spazio architettonico per relativizzare la costruzione del senso assegnata altrimenti ad una soggettività ingombrante.
Nel suo primo lungometraggio, Busan è un luogo senza vita apparente, individuato tra una notte perenne e l’anonimato degli spazi privati. Il dramma di due adolescenti, nel passaggio tragico e precoce alla vita adulta, viene sviluppato entro una dimensione potenzialmente immaginale, la cui sorgente potrebbe essere il frutto di una pluralità di sguardi contrastanti, ma che finisce per affluire verso quell’idea di città che si apre all’orizzonte negativo del non luogo.
La scrittura stessa del film è soggetta a progressive revisioni e assestamenti, nel tentativo di abitare pienamente il dissidio tra il processo psichico capace di sintetizzare i fatti in un’esperienza significativa e il modo in cui questi possano essere riletti e trasformati in un ambiente diverso.
Da-young, la liceale interpretata da Parl Seo-yoon, è in effetti e soprattutto ovunque fuori luogo.
Il desiderio di essere amata è il motore principale di un’esistenza ancora troppo difficile da codificare e questo può includere l’esercizio della manipolazione come spazio elettivo dell’invenzione.
L’origine della narrazione scaturisce dalla sua testimonianza, spontaneamente vergata per un compito scolastico estivo, ma sarà proprio l’estrema crudeltà del racconto a spingere il suo insegnante a richiedere una serie di versioni successive, dove cornice ed eventi possano assumere contorni più chiari.
La storia d’amore tra Da-young e il coetaneo Byung-hoon è fatta di tutte le incertezze che rendono instabile il processo di legittimazione identitaria. Possesso, menzogna e abuso vengono esercitati con il mito dell’adulto in prospettiva e descritti con le gradazioni eccessive ed estreme di un’età che non conosce mediazioni.
Ma quello che Sohn Hyun-lok sottrae è proprio il contesto sociale, ridotto alla stilizzazione di alcune figure di riferimento, dalla scuola alla famiglia. Cala quindi i personaggi negli spazi marginali della città.
Che siano vicoli, un tavolo da pranzo con uno scorcio marino sullo sfondo, la notte di una città anonimizzata e deserta, gli interni famigliari e scolastici derealizzati dalla loro funzione collettiva e interattiva, tutto tende alla spettralità metafisica.
La ricostruzione corale di un’estate evanescente come lo sostanza stessa del racconto, viene sostituita dalle continue analessi. Sono queste che complicano l’ordito invece di svelarne gli snodi, perché ricollocano gli eventi in base al regime del desiderio.
Se l’insegnante che attraversa la vita della ragazza e si contende con Byung-hoon la paternità di un figlio, cambia attitudini e collocazione come fosse il prodotto di una conciliazione tra la fantasia e la realtà, quello animato da principi disciplinari che chiede verità e che conseguentemente spinge Da-young a riscrivere il film, assume il ruolo del demiurgo animato da una logica autoriflessiva impossibile.
Si crea allora un cortocircuito tra l’ineffabilità dell’età acerba e l’illusione di organizzarne il senso.
La prassi che il regista coreano ha raccontato in alcune interviste è in effetti lontana da quella prospettiva di controllo e si è affidata più volte a dinamiche improvvisative legate alle reazioni degli interpreti principali rispetto alla potenzialità degli eventi.
Ecco perché That Summer’s lie è un film claustrofobico e straordinariamente libero.
Vicino in egual misura al regime dell’immaginazione e a quello di una quotidianità scandita dall’istanziazione del tempo attraverso il suo fluire, rinuncia a qualsiasi marcatura riducendo prima di tutto le forme del montaggio tra immagini.
Gli oggetti, gli interni e tutti i frammenti urbani determinano l’immediatezza del presente, ma possono essere alternativamente assegnati a diverse attività del soggetto, non ultima quella dell’impulso affabulatorio. L’esperienza di passaggio da un’età ad un’altra, viene allora ricondotta verso l’ambiguità del limite, dove l’infrazione consente di spezzare la cornice e produrre storie in continua trasformazione.
L’immagine, terribile e inquietante, che sembra chiudere il film entro il confino forzato di un’azione disciplinare, mette in scena con incredibile trasparenza il dissidio tra desiderio e volontà nel contenitore rappresentativo.
Questo, come sembra indicarci Sohn Hyun-lok, può vivere solo nel superamento del visibile e del dicibile.
That summer’s lie di Sohn Hyun-lok (Sud Corea 2023, 138 min)
Sceneggiatura: Sohn Hyun-lok
montaggio: Sohn Hyun-lok
fotografia: Lee Do-won
Interpreti: Seo-yoon ParkMin-jae ChoiEui-tae YuJane YoonChae-won KimGuk-hyoung Yoo-hee KangGo-eun KimGa-bee KimChang-hwan Jung