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The Blackcoat’s Daughter di Oz Perkins: recensione

Il tempo del sogno, del desiderio e della memoria caratterizzano quello di Oz Perkins come un cinema di fantasmi. In The Blackcoat's Daughter il patrimonio acquisito del lessico horror viene cannibalizzato per diventare traccia e apparizione, dove apparente è la cornice stessa.

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February, month of despair,
with a skewered heart in the centre.

(Margaret Atwood, February)

Durante il percorso che conduce il primo lungometraggio di Oz Perkins dalla premiere canadese al pubblico, la A24, che nel 2015 acquisisce parte dei diritti di distribuzione per gli Stati Uniti, chiede al regista di trovare un titolo più indicativo rispetto al genere di riferimento, così da sostituire il precedente “February” con cui era stato presentato a Toronto. Perkins sceglie allora un verso scritto dal fratello Elvis per i due brani che incorniciano il film. Incantation e Outcantation segnano l’ingresso e l’uscita da un sogno, le cui caratteristiche oscure e allo stesso tempo rivelatrici incorporano le sorti di un’anima dannata. Nella filastrocca folk scritta per la colonna sonora del film, quel cappotto nero della paternità, separa la figlia dagli angeli e contamina l’acqua della fonte battesimale.

Le liriche che a un certo punto descrivono la testa impura appoggiata sul letto, fanno eco alle prime immagini del film, dove Kiernan Shipka ancora addormentata, appare in uno stato di contrizione simile a quello della preghiera. Ed è proprio l’ombra di una figura maschile, identificata come “padre” a svegliare la ragazza per condurla in mezzo ad un paesaggio innevato ed indicarle il relitto di una macchina distrutta. Nell’abitacolo sembra esserci il corpo ancora caldo della madre, ma è solo il mormorio della ragazza a rivelarcelo, perché l’immagine rimane congelata a distanza con la qualità apparente di un miraggio.

Che si tratti di una visione fuori dall’esperienza quotidiana viene chiarito dalla progressiva reiterazione dei motivi visuali, dove veglia e sonno si alternano e il montaggio contestualizza di volta in volta differenti cronologie. L’unica indicazione di tempo è una data sul calendario della camera, il 22 Febbraio, giorno in cui i genitori di Kat dovrebbero arrivare per far visita alla figlia.

Attorno a quella fugace apparizione della morte ruotano numerose possibilità temporali del racconto, legate al tempo del sogno, a quello del desiderio e alle forme della realtà psichica, memoria inclusa.
Kat prevede o ricorda? Desidera oppure rielabora una realtà traumatica?

L’idea di Cinema che Oz Perkins vuole sviluppare è già nei due minuti che introducono il film, organizzati secondo continue sostituzioni dei punti di vista e delle loro sorgenti, ma anche con l’elaborazione di una dimensione contemplativa che determina stratificazioni e sedimentazioni temporali su due assi. Uno che spinge verso la contrazione e la disseminazione della storia, il secondo dove gli strati coesistono e rimangono apparentemente intrappolati nella morfologia degli oggetti, assorbiti dall’immutabilità degli ambienti, rivelati nel pulviscolo che si materializza tra ombra e luce, ed infine inscritti nelle sculture sonore tra il sound design di Allan Fung e l’elettronica organica di Elvis Perkins, radicatissima nella Storia del folk rurale statunitense.

Branford, al nord dell’area metropolitana newyorchese, accoglie in un college le studentesse di confessione cattolica e Katherine è tra queste. In una conversazione con padre Brian, il direttore dell’istituto, si rammarica per l’imminente partenza del prelato, una breve assenza, ma sufficiente per mancare ad una non precisata performance della ragazza. Il contrasto tra lo spazio aperto e sospeso del sogno e l’ufficio immerso nella monodimensionalità dell’ombra, sembra recuperare dinamiche simili a The Shining, quando la vastità della natura montana viene sostituita dall’architettura claustrofobica dell’Overlook, introdotta dallo spazio dove si svolge il colloquio di lavoro di Jack Torrance, nell’ufficio di Stuart Ullman.

Perkins ricrea un senso di minaccia molto simile a quello del film di Kubrick nel frammento citato. Sposta altrove le gradazioni, ma sostanzialmente costruisce una tensione irrisolta e su più livelli, a partire dalla relazione tra piani della visione, con la presenza dell’ambiente come elemento essenziale del discorso.

Kat sembra delusa e ferita dalla partenza di padre Brian. Il motivo è quello di una paternità negata che diventerà recursivo e simmetrico, ma il peso traumatico della perdita che attraversa tutta questa prima parte del film, viene immediatamente irriso con uno sguardo indirizzato fuori campo, verso un altrove che potrebbe essere nell’ombra stessa oppure oltre la finestra che separa l’ufficio del direttore dall’esterno innevato. Il mezzo sorriso individuato dal prete e immediatamente cancellato dal volto della ragazza, rivela uno spazio vacante sottolineato dalla direzione dello sguardo. Quel vuoto ci osserva e disinnesca l’arbitrarietà delle simmetrie rappresentative, rivelando, attraverso l’assenza dell’oggetto della visione, la sostanza della solitudine o quella impalpabile della coscienza.

L’estraniamento percettivo che Perkins realizza attraverso la ricostruzione di una paternità assente nell’esperienza di Kat, passa quindi attraverso la latenza della visione periferica.
I limiti del campo visivo verranno progressivamente sfiorati da presenze fugaci, dove l’immediatamente percettibile delle stanze, può rivelare presenze nella coda dell’occhio.

Quando le ombre diventeranno una sagoma apparentemente riconoscibile, come un riflesso oscuro e negativo dell’Harvey di Chase/Koster, l’idea di una percezione fluttuante e diversamente assegnabile, coinciderà con la spettralità della cornice che la contiene, quella degli ambienti stessi.

Fantasma della morte prima e dopo che questa accada senza mai mostrarsi compiutamente, se non attraverso il relitto di un’auto, una telefonata inaudibile oppure lo spazio frammentato tra sogno e memoria, l’ombra del “portatore di luce” è un segno trasmesso dall’immaginazione che diventa racconto. La prima a parlare di Satana è Rose, la confinante di stanza di Katherine incaricata di sorvegliare la ragazza, in attesa che i genitori vengano a prenderla. La leggenda metropolitana che descrive le suore come adoratrici segrete del demonio, si riflette sul rituale spiato dalla compagna, mentre Kat si prostra davanti alla fornace in fiamme del seminterrato. Un riverbero che indica una direzione, ma che ancora una volta risiede tra informe e forma, tanto potrebbe essere immagine plasmata e causata da un’altra immagine.
Ed è la relazione stessa tra Kat e Rose a suggerircelo, nella commistione tra timore e desiderio sottesa dal peso della religione cattolica nella vita di entrambe, dove gli oggetti dell’una sono feticci intoccabili per l’altra e le figure maschili rimangono ai margini per tutt’e due.

Da qui e in seguito il Cinema di Perkins diventa saggio acuminato sulla volatilità delle immagini e si popola di εἴδωλα, doppi spettrali che dialogano da diverse temporalità e che si confondono con i luoghi, le case, gli oggetti, anche per il modo in cui il patrimonio acquisito del lessico horror viene cannibalizzato per diventare traccia e apparizione.

Ritornano i luoghi del delitto o dove si è consumato l’orrore, si sovrappongono da uno spaziotempo diverso per similarità e ripetizione, come fossero pattern di alcuni simulacri aurali e visuali derealizzati. Dall’interno dell’appartamento delle due suore, per esempio, mentre le forze dell’ordine cercano di sfondare la porta, la panoramica su mobilia e tappezzeria è scandita dalla digitalizzazione sonora della puntina di un piatto, quando gira a vuoto nell’area della dead wax, quasi ad indicare un’aberrazione temporale, una cattiva sincronizzazione, oppure un loop temporale.

Sull’origine delle ripetizioni Perkins lascia alcune prospettive aperte, malgrado il tempo sembri a un certo punto imboccare una convergenza.
In un altrove per il momento senza alcuna connotazione temporale, viene delineato il percorso di Joan.
Già fantasma di se stessa per il furto di identità che le ha consentito di fuggire da un centro di salute mentale, sembra innescare misteriosi parallelismi con la vita di Kat. L’incontro con Bill, padre gentile in viaggio con la moglie sulle tracce mnestiche di una figlia perduta, agevolerà un dialogo non così diverso da quello tra Kat e Padre Brian.
Lo sguardo di Joan assegna a Bill un’ambiguità simile che confina la rivelazione di un disagio nella soglia dell’indicibile.
Bill e Brian possono essere alternativamente abusanti o premurosi, attenti o morbosi. Ciò che conta è il modo in cui le loro attenzioni vengono trasfigurate dall’indirizzamento dello sguardo.
Il flashback che ci mostra Joan Marsh strangolata con una cintura, contestualizza in parte tutto quello che abbiamo visto, mentre rivela Kat nove anni dopo, intenzionata a tornare sulla via di Branford.

I delitti sacrificali si ripetono e allo stesso tempo si intersecano, questo perché le analogie del montaggio non determinano la supremazia della realtà sulle immagini generate dal desiderio.

Eppure Perkins non è interessato affatto allo scioglimento della vicenda, nonostante certa brutta critica statunitense si sia soffermata soprattutto sulla soluzione del puzzle, quasi che la scelta non lineare di un autore sia un esercizio per allenare solo i muscoli neuronali di alcuni, allo scopo di riordinare gli elementi della fabula.
Interpretata da Emma Roberts, Joan ricorda i tratti di Kat, ma Perkins lavora maggiormente sul disorientamento percettivo e cognitivo che sulla verosimiglianza, tanto che il tempo sembra essersi fermato e lo stesso Bill si affeziona alla solitudine della ragazza nel ricordo della figlia. Non ci sono quindi elementi rilevanti che evidenziano un salto generazionale.

E questo perché Kat viene descritta sin dalle prime immagini come un personaggio fuori dai cardini del tempo, emersa da una dimensione onirica e senza alcuna origine.
Di chi è veramente figlia? Lo stesso Perkins, proprio in base alla scelta del titolo che raccontavamo all’inizio, rilevava nel verso scritto dal fratello una straordinaria possibilità polisemica. Blackcoat indica alternativamente una figura oscura, ma nello slang americano, anche un membro del clero.
L’attesa dei genitori in fondo non si risolve, neanche nella morte sognata. Quando da precognizione diventa fatto, niente ci rivela la collocazione temporale delle prime immagini né la gerarchia tra passato e presente, ovvero quella definizione del racconto che colloca il ricordo e la cosa ricordata in una relazione certa.

Più importante della rivelazione e della distinzione tra desiderio e ricordo è allora la reiterazione del gesto, il ripercorrere lo spazio della memoria per trovarlo improvvisamente svuotato.
Con la morte tutt’intorno e senza più fiamme, la fornace del culto ormai gelida come il metallo che la costituisce è il risultato di un brutale esorcismo identitario.

Il pianto della ragazza in una wasteland invernale racconta il cuore di un mese crudele come in “February” di Margaret Atwood. Per la scrittrice l’assenza d’amore è connaturata al modo in cui la comunità si è organizzata in base ai criteri più violenti di conservazione di un territorio. Tutt’intorno, al contrario, emerge isolamento e solitudine. Per il regista americano potrebbe essere la dissoluzione della famiglia nucleare tra le apparizioni e gli spettri di un paese senza più direzione, esso stesso εἴδωλον. Ecco che la scrittura di Perkins, con la dilatazione estrema degli elementi del racconto, cerca nella forma contemplativa e in quella scaturita dai meccanismi della memoria, le possibili aperture dello sguardo soggettivo ad una pluralità di significati.
La relazione tra i frammenti della storia diventano allora materialità combinatoria che tende alla creazione di uno spazio eminentemente poetico.

The Blackcoat’s Daughter di Osgood Perkins (Canada, USA 2015 – 93 min)

Interpreti: Emma Roberts, Kiernan Shipka, Lucy Boynton, Lauren Holly, James Remar
Sceneggiatura: Osgood Perkins
Fotografia: Julie Kirkwood
Montaggio: Brian Ufberg
Musica: Elvis Perkins

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Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media.
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