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The Dead Don’t Hurt di Viggo Mortensen: recensione

Per il suo secondo film come regista, Viggo Mortensen scrive anche la sceneggiatura e compone la colonna sonora. The Dead Don't Hurt, ancora inedito in Italia, è uno splendido, brutale e intimo western che si ritrae dai numerosi riferimenti, per ricombinarli con la forza critica dello sguardo. La recensione

La morte, nelle sue manifestazioni più crudeli e inesorabili, occupa i primi quattro minuti del secondo film diretto da Viggo Mortensen. L’incipit, fino al titolo rosso fuoco che sembra farsi beffe della rassegna di cadaveri, trattiene una qualità apparentemente astratta tra le pieghe di quel realismo estremo sottolineato dalle immagini. Un cavaliere in armatura attraversa la foresta, figura fuori dai cardini del tempo, immediatamente sostituita dal volto cianotico di Vicky Krieps sul letto di morte. Tutt’intorno la violenza consumata tra il saloon e la polvere di un villaggio del Nevada vicino ad altri topoi del genere, poco prima che il rubino sanguigno del lettering ci ricordi che i morti non soffrono.

Elementi del racconto contestualizzati successivamente, ma con un costante e coerente spostamento delle gradazioni musicali che servono a Mortensen per costruire una partitura tesa a disattendere lo sviluppo di ogni climax in una direzione prevedibile. Sono tensioni emotive, intime e politiche che per il regista americano costituiscono il cuore del suo cinema prima ancora che si cristallizzi negli stereotipi di genere.

Ecco che il come, prima ancora del cosa, diventa fondamentale nella collocazione di tutti gli archetipi conosciuti del western, oltre la cronologia lineare che avrebbe assorbito il film in un’adesione formale e narrativa determinata. Il contrasto tra legge e corruzione nella formazione di uno stato liberale; la sostanza apolide e plurilinguistica di questo nuovo mondo; la violenza cieca e mafiosa che annichilisce il progresso della comunità; la guerra osservata da prospettive opposte; l’amore come unica possibilità di resilienza; la linea rossa della vendetta.
Linee tematiche che in un modo o in un altro caratterizzano tanto il western classico, quanto quello crepuscolare degli anni settanta, a cui Mortensen si riferisce alternativamente, cercando allo stesso tempo una cosciente derealizzazione di spazi, corpi, azioni e racconto.

La scelta di procedere fuori dalla cronologia formale del montaggio, scegliendo invece la discontinuità, gli consente di innescare un reagente che ravviva ogni volta il potenziale semiotico delle immagini e quello emotivo dei personaggi.
Con un apparente decremento dell’intensità, questa prende direzioni inaspettate e incendia altri significati.

Lo stesso paesaggio, costruito attraverso una serie di location disseminate per lo stato messicano di Durango, si riferisce ad una lunga tradizione che attraversa il cinema western, senza correre il rischio di quella riconoscibilità, che per esempio ha caratterizzato la scelta dell’Almeria durante un periodo specifico anche della nostra cinematografia. Mortensen cerca una desolazione essenziale e trova luoghi meno battuti, fondendo il deserto con lo spazio sociale e isolando i personaggi in una dimensione quasi incomunicante.

Alla violenza della città-stato, sovrana sui cittadini di buona volontà grazie alla sovrapposizione tra potere e terrore, si contrappone la costruzione di una civiltà intima e isolata come quella caratterizzata dall’incontro tra Vivienne Le Coudy e Holger Olsen, due immigrati che immaginano la costituzione di un nuovo stato attraverso il lavoro, capace di mitigare le asperità e l’aridità dello spazio naturale.

Sulla costruzione della casa come luogo nucleare in mezzo al deserto, Mortensen costruisce tutta una poetica visuale che attraversa sottilmente il film e che tende al continuo disinnesco del sogno, anche in virtù delle scelte illogiche e irrazionali che guidano lo spirito dei personaggi.
Rispetto a quell’idea di civiltà, l’ombra della violenza e quella della guerra sembrano determinare una linea di demarcazione che gli consentirà di mettere completamente al centro il personaggio femminile.
La guerra come scelta di fedeltà ad un’idea comune rimane quindi fuori campo. Quella di Vivienne risiede su un altro piano e contribuisce a riscrivere le regole e gli standard percettivi della mascolinità, questione centrale, nella sua revisione, anche nel precedente Falling, il debutto di Mortensen dietro la macchina da presa.

La guerra e successivamente la linea della vendetta, vengono collocate fuori campo. Non tanto in virtù del meccanismo a-cronologico del film, quanto per una chiara sostituzione di priorità e peso specifico nella sistemazione narrativa degli archetipi.
Il topos della figura femminile artefice del proprio destino rispetto alla percezione della comunità, da Johnny Guitar a Meek’s Cutoff, viene riletto da Mortensen da una prospettiva più intima e dolente, la cui origine è nello spazio ec-centrico definito da una diversa e fondativa idea d’America.
Non è solo l’eredità canadese di Vivienne, ma il modo in cui l’esecuzione brutale del padre da parte dei soldati inglesi viene sublimata da un sogno dove il cavaliere e l’immagine della guerra stessa provengono dal XV secolo. Una difesa della spazio identitario ormai in frantumi per l’inesorabile discesa nell’inferno della violenza al potere.

Spietati e senza alcun codice condiviso, il sindaco, il più potente imprenditore del villaggio, e un figlio educato ad esercitare l’abuso, rappresentano il nuovo regime del terrore. Se per Holger l’alternativa è servire lo Stato come ideale puro e coesivo rispetto a questa deriva, prima con l’adesione militare, successivamente con un’impossibile e fallimentare esperienza da sceriffo, Vivienne non crede nelle origini di una comunità che ha basato la propria costruzione sul sopruso, sull’inganno e sulla violenza. Con questa violenza cieca e stolida dovrà fare i conti fino alla soppressione.

Il suo personale calvario viene assorbito dalla forza selvatica e duttile di un’interprete come Vicky Krieps, capace di trascolorare dalla seduzione alla gioia di una bambina, dallo stupore al dolore estremo, nello spazio mobile di un volto che è tutte queste cose.

Mortensen assegna ad Holger quel silenzio meditativo che ha caratterizzato sin da Passion of Darlky Noon molte delle sue interpretazioni, facendo da contraltare alla fisicità di Krieps con i gesti di un’artigianato onesto e radicato alla terra.
Nel ritrarsi del suo personaggio c’è anche il senso di un cinema che cerca la forza delle immagini nei continui slittamenti di tempo, spazio e intensità. Proprio questa si sottrae, letteralmente, dallo sviluppo dei numerosi riferimenti che ne costituiscono l’ossatura drammaturgica.

Scelte coraggiose quelle di Mortensen, diametralmente opposte dall’esubero corrente di un cinema post-post-moderno, che su quei relitti semiotici ha costruito intollerabili macchine celibi destinate all’invecchiamento precoce.

The Dead Don’t Hurt ha invece una relazione non riconciliata con la tradizione, proprio perché da quella attinge per la costruzione delle varie unità linguistiche dell’immagine, dai paesaggi ai corpi, dal saloon alla violenza di un mondo privo di regole. Quelle unità significano improvvisamente altro in un vitale esempio di cinema combinatorio, dove in questo caso intendiamo proprio la capacità di permutare e modificare elementi apparentemente famigliari e consueti, con la forza critica dello sguardo.

E il mare, che segna il limite e la fine della terra come spazio di conquista, è un’ellisse tanto semplice quanto precisa di quell’interiorità recisa tra città e potere, spaesamento e futuro.

The Dead Don’t Hurt, inedito in Italia, dopo la presentazione al Toronto International Film Festival, è disponibile in Blu Ray grazie alla label britannica Signature Entertainmentmateriale stampa Shout! Studios

The Dead Don’t Hurt di Viggo Mortensen (Messico, Canada, Danimarca – 2023 – 129 min)
Sceneggiatura: Viggo Mortensen
Produttore: Viggo Mortensen, Regina Solórzano, Jeremy Thomas
Fotografia: Marcel Zyskind
Montaggio: Peder Pedersen
Musiche: Viggo Mortensen
Scenografia: Carol Spier
Costumi: Anne Dixon
Interpreti: Vicky Krieps, Viggo Mortensen, Solly McLeod, Garret Dillahunt, Ray McKinnon, Luke Reilly, Atlas Green, Danny Huston, W. Earl Brown, John Getz

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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