Nel ravvicinamento senza sosta tra sensi e tecnologia che sovrappone le forme della narrazione cinematografica alle caratteristiche di un intrattenimento sempre più volumetrico, The Fabelmans è una radicale ricerca dell’aurora.
La luce dell’inizio del giorno, ancora sospesa in uno stato embrionale, trattiene nei primi bagliori una qualità crepuscolare. Nella confluenza dei due stati, il declino delle forme che conoscevamo implica quindi la prospettiva della rinascita.
Steven Spielberg conosce bene la tensione attuale tra storytelling e storyliving e per certi versi, durante il nuovo millennio ne ha anticipato più volte sconfinamenti e collisioni da prospettive ermeneutiche diverse, sin da A.I. fino a Minority Report e ovviamente nel recente Ready Player One.
Aurorale allora come necessità di tener vivi e sospesi una serie di interrogativi puntati verso l’orizzonte, come nell’infinita cavalcata di Indiana Jones, l’ultima crociata che si estende sui titoli di coda, a perdita d’occhio.
Il ritorno alle origini della propria famiglia, trasfigurata con una sceneggiatura scritta a quattro mani insieme a Tony Kushner, è anche un’immersione nell’alba del proprio cinema, rivisto e riletto da un’anteriorità irraggiungibile, con l’ardore di un protolinguaggio privato.
Tutto il film è attraversato da questa tensione tra il dispositivo tecnico allestito per creare una logica discorsiva e l’assunzione del punto di vista come ricerca dell’istante da cui liberare altri indirizzamenti possibili. Svincolato dal sistema delle attrazioni dopo il tentativo di rifare l’incidente ferroviario di un tardo DeMille, il giovane Sam sviluppa la sua febbrile passione per il Cinema calando se stesso nell’evento e cercando nello spazio di un artigianato collettivo, l’occasione per caricare le abilità tecniche con l’intensità dello sguardo.
Ed è proprio il confronto con la famiglia che gli permette di comprendere la relazione tra spazio, apparato e sguardo soggettivo. La differenza tra ricombinare in moviola il camping dei Fabelmans e la messa in scena di un’azione bellica della seconda guerra mondiale insieme ad un manipolo di quaranta adolescenti, è solo nelle proporzioni che costituiscono l’organizzazione del profilmico. La ricerca di una minore distanza emotiva passa allora attraverso l’esperienza del set come equilibrio tra il controllo dell’insieme e l’ineffabilità dell’esistenza, fantasma che sfugge al linguaggio descrittivo del montaggio e quindi resiste a tutti i tentativi di depotenziamento, imprimendosi sulla pellicola.
Quell’immagine di un amore clandestino che si consuma sullo sfondo di una vacanza apparentemente idilliaca, smonta il set principale del piccolo film intimo desiderato dal padre di Sam e suggerisce al ragazzo come guardare, quale responsabilità assegnare allo sguardo, che tipo di relazione possa intercorrere tra ciò che è immediatamente visibile e quello che può diventare leggibile.
Gli esercizi successivi, tra piccoli set allestiti e occasioni di intervento sulla realtà collettiva, superano la parzialità dell’occhio personale per scoprire l’atto del filmare come un gesto che rivela i sentimenti di un’intera comunità, tra dicibile e indicibile.
Senza il carico emozionale generato dalla presenza della madre nelle immagini del camping, Sam non avrebbe potuto trasmettere la stessa forza emotiva al sergente del suo piccolo film bellico, né avrebbe potuto dischiudere le due, tre, quattro narrazioni allineate su altrettante soggettività, in quello girato per la prom night conclusiva del college californiano.
Eppure quelle immagini così potenti, ma anche troppo oscene e dolorose per poter esser rivelate, descrivono la capacità di leggere il gesto e definirne una verità che possa infondere vita al dispositivo spettacolare.
La danza di Mitzi illuminata dal falò e dai fari dell’auto puntati da Bennie, l’amico di famiglia, sono già un indirizzo di regia, così come la volontà di Burt che il figlio si concentri sul film della scampagnata prima di dedicarsi ad altri progetti. Due direzioni convergenti e opposte del desiderio, che investono di senso l’atto di guardare, da una parte e dall’altra dello schermo, e che vengono acquisite da Sam come chiave per interpretare il set in forma esperienziale.
Spielberg sdipana la storia di Sam con una vicinanza autobiografica che ha l’incedere di un racconto ebraico di formazione, disseminato di segni e riferimenti culturali precisi, non ultima la figura dello zio Boris, uno straordinario Judd Hirsch che assume il ruolo del saggio Yiddish, mentre racconta l’incendio interiore che separa la dedizione all’arte da quella per la famiglia.
Ma è anche vero che oltre alla madre e all’incontro con John Ford, gli elementi narrativi direttamente ispirati dalla biografia del regista statunitense sono distanziati da un’operazione mitopoietica che lo stesso Kushner ha raccontato in un’intervista, descrivendo il processo alla base della scelta del cognome Fableman. La radice è la parola Spieler, che in Yiddish significa attore. Spiel quindi può essere un discorso, ma anche un’opera teatrale. Quella parte del cognome di Spielberg diventa allora Fabel, che in tedesco significa favola. L’uomo della favola è quindi colui che ha il talento per raccontare storie, ma anche un personaggio scaturito dalla fantasia. L’autofinzione consente allora di alternare la ricchezza dell’evento con il potere del linguaggio.
E lo dimostra il modo in cui i piccoli e geniali film muti di Sam, rileggono il cinema adulto di Spielberg dalla prospettiva aurorale di un cinema originario che si ripete all’infinito nella tensione tra storia e sistema delle attrazioni. Quest’ultime irrompono e minano la coesione testuale, stabilendo una relazione diretta con lo spettatore e obbligandolo al confronto attraverso la provocazione, lo shock, lo scandalo.
Più delle storie, come nella cavalcata di Indiana Jones che abbiamo citato, è il colore del cielo, la flagranza di un istante nel sistema ad orologeria del set, l’infrangersi del modellino ferroviario che delegittima le aspettative, il gioco che diventa riflesso sfuggito alla vita e ancora, segno per interpretarla.
L’incontro con John Ford illumina ciò che abbiamo visto nelle due ore e ventincinque precedenti. L’idea di orizzonte espressa dalla voce di David Lynch con la forza di un motto di spirito o di una storia zen apre altre possibilità al di là della linearità del racconto. La figura umana contro il paesaggio, nell’unico duello possibile tra lo schermo e lo sguardo.
The Fabelmans di Steven Spielberg (Usa 2022, 151 min)
Interpreti: Michelle Williams, Paul Dano, Seth Rogen, Gabriel LaBelle, Judd Hirsch, Oakes Fegley, Gabriel Bateman, Nicolas Cantu, Julia Butters, Sam Rechner, Jeannie Berlin, Robin Bartlett, Keeley Karsten
Sceneggiatura: Steven Spielberg e Tony Kushner
Fotografia: Janusz Kaminski
Montaggio: Sarah Broshar, Michael Kahn
Musica: John Williams