sabato, Novembre 2, 2024

The Giver – Il mondo di Jonas, di Phillip Noyce: la recensione

Phillip Noyce dirige l'adattamento dal romanzo di formazione di Lois Lowry, film fortemente desiderato da Jeff Bridges fin dal 1993, qui nelle vesti di interprete e produttore.

Dietro la gestazione di “The Giver” c’è un lungo e accidentato processo che oltre a precise difficoltà produttive coinvolge aspetti personali e familistici. Jeff Bridges acquisisce i diritti del romanzo scritto da Lois Lowry nel 1993, ovvero subito dopo la sua pubblicazione; a colpirlo è l’artwork del libro, perchè il vecchio “donatore” disegnato sulla prima di copertina gli ricorda il padre, l’attore Lloyd Bridges, a cui pensa come possibile interprete. Ne gira quindi una versione casalinga insieme al padre, coinvolgendo il nipote per il ruolo di Jonas, ma non trova i fondi per portare il progetto fuori dalle mura di casa. Il soggetto rimbalza fino alla Fox senza successo, viene in seguito opzionato dalla Warner nel 2008 con l’idea di affidarlo a David Yates, erede del franchisee di Harry Potter dal capitolo quinto fino alla conclusione della saga cinematografica; ma la Warner abbandonerà il progetto di li a poco, recentemente recuperato dalla Weinstein Co. e affidato all’australiano Phillip Noyce, autore meno gettonato di Yates, sopratutto nell’ambito del cinema per adolescenti, ma dallo sguardo più teorico e artefice di tre piccoli grandi film sull’occhio diretti uno dietro l’altro dopo il folgorante “Ore dieci: Calma piatta”.

Il testo della Lowry consente a Noyce di recuperare quelle idee sull’ipertrofia dell’immagine esasperate in “Sliver” rovesciandone i parametri; mentre il film del ’93 preconizzava la monade connettiva dei Social Network trasferendo la paranoia del controllo desunta dal cinema americano del decennio precedente nell’arena dello spazio privato post-catodico, infestato da schermi, occhi disincarnati, corto-circuiti della visione, in anticipo di quattro anni rispetto al “Big Brother” della Endemol; lo scenario distopico di “The Giver” diventa un terreno fertile per fare tabula rasa di quella stessa ipervisione, invertendo la posizione cognitiva delle immagini. Nella società comunitaria ideata dalla Lowry, le immagini hanno una caratteristica pulsionale negativa, vengono quindi rimosse per favorire un equilibrio relazionale basato sulla funzione dei singoli individui, una riduzione della verticalità gerarchica che procede insieme all’appiattimento dell’orizzonte visivo, tradotto da Phillip Noyce con un utilizzo piatto e anti nostalgico del bianco e nero, quasi si trattasse della realtà osservata da uno di quei dispositivi a circuito chiuso degli anni ’90, utile per registrare immagini senza contrasto e profondità.

Se quindi il decòr, la geometria dello spazio, il fascino di un profilmico sci-fi ricercano quell’asetticità di maniera radicata nell’immaginario cinematografico di genere tra la fine dei sessanta e gli inizi dei settanta (Logan’s run, Fahrenheit 451, The Prisoner prodotto dalla AMC), Noyce sceglie un appiattimento radicale e anti-emozionale dello scenario distopico, attraverso una negazione dell’occhio che pone le immagini di “The Giver” agli antipodi, per esempio, rispetto a “The island” di Michael Bay.

Su questa idea semplice, più vicina ad una certa archeologia percettiva del cinema tra i settanta e gli ottanta, costruisce un romanzo di formazione sull’emergere delle emozioni servendosi in parte del rapporto tra immagine e colore; uno schematismo apparentemente ingenuo e binario che stimola una riflessione non del tutto scontata sul valore mnestico dell’immagine cinematografica. Quando la relazione tra il vecchio donatore (Jeff Bridges) e il giovane erede (Brenton Thwaites) diventerà un pericoloso trasduttore di immagini recuperate dalla memoria, Noyce si serve di frammenti provenienti da un passato che ha poco a che vedere con il nostro presente digitale, recuperando un’estetica semplificata simile al viaggio psichico di Warren Beatty in “The Parallax View” di Alan J. Pakula; ipertrofia dell’immagine televisiva che nei ’70 cominciava a minare quella cinematografica, qui rovesciata in una rêverie quasi proustiana, una riallocazione delle immagini perdute, cancellate nell’inerzia fredda dei cloud.

Può far sorridere l’apparente semplicità dell’ultimo Noyce, ma al di là di una confezione sin troppo legata alla geometria del set, colpisce questa assimilazione della memoria all’immagine storica di un cinema dimenticato, perchè senza che questo diventi recupero citazionista, assume il ruolo di un ponte percettivo tra l’immagine contemporanea e quella di un cinema legato al segno, al gesto, ai corpi e agli oggetti. Non solo lo slittino di Jonas allora, quasi fosse la riflessione di Douglas Trumbull sulla proto-realtà virtuale, ma anche tutti gli oggetti e i gesti che diventano veicolo di un codice emozionale, come la mela, diaframma tra un pensiero narcotizzato e la conoscenza, primo tentativo compiuto da Jonas per contaminare la sua realtà con i valori cromatici dell’immagine. Ma sopratutto, quella incredibile ellisse, semplice ed enigmatica, che strappa il film inquadrando una casa nella neve; immagine del passato che con tutta la sua potente semplicità erompe in un presente desaturato, invertendo i rapporti di forza tra ricordo e precognizione, quasi a suggerire l’unico viaggio virtuale possibile nella dimensione di una Storia che torna, salvificamente, sulle immagini del desiderio.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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