Sarà una suggestione affettiva, ma l’ultimo film di Tarantino è più vicino al set estremo del Lazarus Bowiano che al funzionamento del Kammerspiel, involucro-trappola, come l’emporio di Minnie. Non ha importanza quali appigli culturali il nostro si diverta a disseminare con esemplare consapevolezza, facendosi sollecitare da chi rileva debiti tra Carpenter, Agata Christie, il Tolstoj de “La famiglia dei Vurdalak” (Bava, Polanski appunto e Tarantino) e la letteratura noir.
La relazione che il regista americano, da sempre, intrattiene con questi segni di cinema non è così diversa da quella di Derrida con la metafisica occidentale o con le cartoline postali. Per quanto posseduto dal logos, lo spazio chiuso di The Hateful Eight è costantemente sottoposto al rovesciamento della menzogna nella verità o viceversa, proprio in virtù della sua qualità cameristica, confidenziale e intima, osservata proprio con quelle lenti progettate per spalancare lo spazio davanti alla figura umana.
Ancora una volta la scrittura critica diventa un processo avventuroso, nel dispiegarsi di infinite combinazioni come quelle che escono dalla stanza in cui si trova Bowie-Lazarus (qui una geografia immaginaria), con il pavimento che sembra la parete di un altro luogo Bowiano e la presenza di segni, rimandi interni che si aprono verso l’esterno, mentre la cecità ci minaccia tutti quanti. Diciamo questo perché dentro The Hateful Eight c’è ovviamente anche il cinema di Tarantino, ripiegamento certamente rischioso, ma che non lo allontana dall’intenzione di occupare un confine liminale, la cui posizione coincide spesso con il sabotaggio, la riallocazione, lo spostamento e ovviamente, la biforcazione.
Basta pensare al modo del tutto “grammatologico” con cui utilizza i due principali McGuffin del film, il caffè e la lettera di Lincoln, entrambi origine di una frantumazione del logos, che avvia una illimitata leggibilità (come si diceva per il Blackstar Bowiano da questa parte) mentre sottrae la parola-testo al suo contesto originario, rendendola organismo mutante e disponibile al di là dei personaggi, delle contingenze storiche e ovviamente del porto sicuro per il cinefilo saldato alla propria collezione.
In questo senso allora più dei riferimenti espliciti alla “Cosa” Carpenteriana, è questo fattore mutogeno a consentire il distacco dall’ontologia rituale, perché nell’ipertrofia letteraria del film, si gioca sui margini stessi del testo, sottraendolo da una definizione univoca e conducendolo nella dimensione del cinema politico, luogo della differenza o se si vuole, spazio eterotopo, dove i corpi possono essere fatti a pezzi, come le parole.